Ogni utopia ha bisogno di spazi vuoti entro cui poter ridisegnare radicalmente forme, oggetti ed eventi. Immaginare un mondo in cui le forme di vita coesistono sperimentando più alleanze e meno conflitto implica un lavoro di pulizia degli spazi attuali: che restino vuoti i piedistalli e i musei di scienze naturali, per esempio. Che non ci sia installato niente, che nessun corpo di animale appaia come oggetto o trofeo. Bisogna fare posto ai corpi vivi che invece ogni giorno uccidiamo, liberarci dal pensarli come oggetti che prima o poi mostreremo. Serve meno museo e più vita, meno carne e più vita. A Parigi, nel quartiere del Marais, c’è il Musée de la chasse et de la nature, il museo della caccia e della natura. Sembra paradossale, ma questo luogo assurdo è quello in cui negli anni ho visto meglio rappresentati gli animali e la natura. Un fatto che ricorda la strana tesi del filosofo francese Gilles Deleuze, secondo cui “solo i cacciatori, tra gli umani, conoscono gli animali”. L’idea è che perlomeno chi caccia l’animale prima lo vede vivo, lo insegue, ne osserva i movimenti. Chi invece gli animali li consuma e basta li vede già oggettificati, non si prende neanche la responsabilità della trasformazione atroce da soggetto a prodotto. Una buona utopia può partire da un percorso a ritroso da quel museo parigino, perché uno spazio vuoto è anche uno spazio che racconta come un movimento che avevamo arrestato avrebbe potuto rendere tutti più liberi. È incredibile, ma forse aveva ragione Deleuze. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1519 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati