La città che nel 2025 sarà la capitale europea della cultura, insieme alla tedesca Chemnitz (ex Karl-Marx-Stadt), è il centro urbano più giovane della Slovenia. Conosciuta anche come la “Las Vegas dei Balcani” perché ospita un gran numero di casinò e night club, negli ultimi decenni Nova Gorica, che ai tempi della Jugoslavia era il “faro più a ovest del nostro stato, quello che ci avverte delle minacce provenienti dall’occidente reazionario”, è diventata una città sempre più marginale. Il colpo di grazia è arrivato con la crisi finanziaria del 2008, che ha messo in ginocchio il turismo legato al gioco d’azzardo. La città ha così dovuto inventarsi una nuova identità. E per farlo ha puntato sulla cultura.

Beni di contrabbando

Nova Gorica fu fondata nel 1947 quando il confine italo-sloveno divise a metà il territorio storicamente unito del Goriziano (Goriška in sloveno), lasciando la maggior parte della città di Gorizia/Gorica sul versante italiano e le zone rurali su quello jugoslavo (oggi sloveno). La fine della seconda guerra mondiale aveva portato la pace. Non erano solo cessate le trentennali tensioni cominciate con l’intervento dell’allora Regno d’Italia contro l’impero austroungarico nella grande guerra, ma erano anche finiti i contrasti cresciuti nel ventennio fascista e durante l’occupazione italiana della regione.

La memoria della guerra è centrale in entrambe le città: nei nomi di strade e piazze, nei cimiteri militari e nei molti monumenti, alcuni dei quali, realizzati da Boris Kalin e Negovan Nemec, sono di notevole valore artistico. Dopo il conflitto la sovranità sulla città di Gorica/Gorizia era rivendicata sia dagli sloveni sia dagli italiani. E la pace arrivò proprio con la fondazione di Nova Gorica.

Non ci sono molte città dove il ricordo della guerra è così presente come a Gorizia/Nova Gorica. Non solo nei musei o nelle piccole esposizioni di collezionisti privati, ma anche nei progetti culturali. Uno dei più importanti è il “Sentiero della pace” che, varcando i confini nazionali, collega paesi e siti storici lungo l’Isonzo, consentendo di scoprire trincee e grotte usate durante il conflitto.

Alla vigilia dell’ingresso della Slovenia nell’area Schengen, nel 2007, una delle maggiori artiste della regione, Anja Medved, ha realizzato un’opera nell’ex posto di blocco del confine che separava le due città. L’installazione si chiamava Smugglers’ confessional, il confessionale dei contrabbandieri. L’idea era che, dopo tutti gli anni passati a nascondere e a trasportare merci da una città all’altra, le persone avrebbero usato quello spazio di divisione e di controllo poliziesco per confessare i loro peccati: storie di contrabbando, ma anche di fughe dalla censura moralista (Italia) o politica (Jugoslavia) nel cinema, nella musica, nella letteratura. Al centro dell’installazione c’era la vita quotidiana in una regione di frontiera.

Nell’opera di Medved le località di confine passano da un’identita nazionale rigorosamente imposta dall’alto a un’identità duale, allo stesso tempo locale e universale, in cui memorie e interpretazioni parallele s’incontrano e coesistono in un complesso sistema di narrazioni e contronarrazioni che aspettano di essere scoperte e ricomposte in una sorta di mosaico. Se c’è un’ossessione, da queste parti, è quella per il confine come spazio dove ogni cosa ha simultaneamente due significati diversi.

Il progetto di Medved è servito da spunto per la creazione del Carinarnica (un centro culturale sperimentale guidato da un’ong) e del Museo del contrabbando. Entrambi si trovano nei quartieri un tempo attraversati dalla frontiera.

Un incontro alla pari

In quest’area urbana il contrabbando non è mai stato solo di merci, ma anche di contenuti e identità. Lo dimostra bene il documentario di Marija Zidar Identity smugglers (Contrabbandieri d’identità), un viaggio alla scoperta del confine occidentale sloveno.

Questo continuo “traffico d’identità” è evidente nelle trame dei film girati nella zona, nei lavori dell’istituto KINOkašča/CINEMattic di Anja Medved, nei progetti del transfrontaliero Kinoatelje, nei lungometraggi dell’italiano Matteo Oleotto (Zoran, il mio nipote scemo) o del celebre regista sloveno Gregor Božič (Storie dai boschi di castagni): tutte opere che ruotano intorno alle identità miste tipiche dei confini e che spesso mescolano documentario e finzione. Ma si nota anche nell’attività teatrale, molto radicata in entrambe le città. Soprattutto nei drammi biografici di Neda Rusjan Bric, che raccontano le vite di personaggi locali come l’attrice Nora Gregor o l’architetto Max Fabiani, le cui identità miste furono tragicamente schiacciate dai nazionalismi del novecento. Un approccio simile contraddistingue anche i lavori del gruppo Teater na konfini, guidato da Maja e Miha Nemec.

Il bene culturale più contrabbandato rimane tuttavia la musica, specialmente il jazz. I musicisti sono contrabbandieri e allo stesso tempo oggetto di contrabbando. Qualche decennio fa il batterista Zlatko Kaučič ha fondato un’ottima scuola di jazz, che ha creato un vivace fermento musicale, animato da giovani di entrambe le città. Ancora oggi la scena jazz è particolarmente interessante, anche rispetto al resto del paese. E con la chiusura di club e sale da concerto sta cercando di appropriarsi di luoghi insoliti, per esempio l’ex camera mortuaria dell’ormai abbandonato cimitero ebraico. Come i musicisti, anche i festival – Brda contemporary, Music of the world, October jazz e Jazz and wine – attraversano i confini e creano rapporti transfrontalieri.

Ai margini delle due città si trova la monumentale stazione ferroviaria. Costruita nel 1906, è uno dei pochi edifici pubblici passati alla Jugoslavia dopo la guerra, ma fa parte dell’identità degli abitanti di entrambe le nazionalità. Proprio davanti alla stazione c’è una piazza condivisa da Gorizia e Nova Gorica, che è stata inaugurata il 1 maggio 2004, quando tutti i capi di stato dell’Unione europea sono arrivati in città per festeggiare l’integrazione di dieci nuovi paesi, tra cui la Slovenia. La piazza non ha ancora un nome condiviso. Sul versante italiano si chiama piazza Transalpina, nome che allude agli anni d’oro di Gorizia, quando fu costruita la ferrovia che collegava la città con la capitale imperiale Vienna, conosciuta come Transalpina in Italia e ferrovia Bohinj, dal nome del lago omonimo, in Slovenia; sul lato sloveno si chiama trg Evrope (piazza Europa), omaggio a una visione utopica di un’Europa futura in cui, come recita l’inno sloveno, “tutti gli uomini saranno liberi / non ci saranno più nemici, ma vicini”.

Quello che sembra un fallito tentativo di unificazione, l’incapacità della classe politica di entrambe le città di accordarsi sul nome di una piazza comune, potrebbe anche essere interpretato in termini dialettici. E in fondo la nomina di Gorizia/Nova Gorica a capitale europea della cultura riguarda esattamente questo. L’obiettivo non è uniformare le due città o, peggio, inventare un’identità condivisa non problematica, un minimo comun denominatore su cui gli abitanti di entrambi i centri possano trovarsi d’accordo. Il punto è costruire un’unità attraverso un incontro in cui nessuna delle due parti perda la sua unicità ma contribuisca invece a creare una realtà nuova. Collaborando tra loro, Nova Gorica e Gorizia formano una città nuova che le trascende entrambe, supera le nazioni e i confini amministrativi. Questa città è tutta nella prassi: è un campo dove si sperimenta un approccio post-nazionale alla vita quotidiana.

L’unificazione è, allo stesso tempo, un obiettivo e un simbolo. Nel mondo contemporaneo ci sono molti dualismi da considerare. Quello tra aree rurali e urbane, che viene affrontato, per esempio, dal collettivo di artisti sloveni BridA. Poi c’è la questione delle lingue e l’obiettivo del multilinguismo passivo. In ambito editoriale e giornalistico questi temi sono affrontati dalla rivista Razpotja, che cerca di decentralizzare il discorso pubblico su cultura, scienze umane e politica, e dalla fiera del libro e festival letterario City of books.

Nel settore artistico, il decentramento è ben affrontato dalla giovane ma vivace School of arts dell’università di Nova Gorica, che attraverso nuovi approcci e mezzi di espressione sta cercando di rappresentare la realtà transfrontaliera. Sicuramente il dualismo tra industria e cultura è stato messo a fuoco nel 2020 da Peter Purg, curatore di Pixxelpoint (il più longevo festival sloveno di arte digitale), che ha riprogrammato le slot machine del principale casinò della città per farne un’installazione artistica.

L’importanza della nomina di Nova Gorica/Gorizia a capitale europea della cultura è molteplice. È un tentativo di rimettere in discussione l’idea di “centro culturale nazionale”, ma anche un’occasione per creare una città europea trans­frontaliera. Di certo servirà per riparare a superare le atrocità della guerra. E potrebbe essere d’esempio per altre città o regioni divise da confini e conflitti. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1440 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati