Negli ultimi due anni i polacchi sono andati alle urne quattro volte. Le elezioni presidenziali che il 12 luglio hanno chiuso questo ciclo non sono state le più importanti sotto il profilo del peso politico, ma senza dubbio quelle più seguite e dal significato simbolico più rilevante, soprattutto per il carattere dello scontro tra i due avversari, il conservatore Andrzej Duda, presidente uscente legato al partito Diritto e giustizia (Pis, al governo dal 2015) e il liberale Rafał Trzaskowski, sindaco di Varsavia e candidato di Piattaforma civica (Po).
Per il Pis il voto è stato un esame difficile, per l’opposizione un tentativo di scalfire il blocco di potere conservatore, ma anche l’occasione di una rivincita per le non poche umiliazioni subite negli ultimi anni. Rispetto all’autunno del 2018, nel complesso non è cambiato molto: la politica polacca è dominata dagli stessi due partiti e, anche se la società appare assai più frammentata, nessuna di queste forze può affermare di essersi significativamente rafforzata ai danni dell’altra.
Eppure alcuni importanti cambiamenti ci sono stati: il leader del Pis, Jarosław Kaczyński, non ha più la libertà di modellare a suo piacimento leggi e strategie di governo come faceva un tempo, e la sofferta vittoria di Duda mostra tutti i limiti della politica del partito al governo, fatta di generosi sussidi sociali, imbellettati di populismo e accompagnati dalla propaganda dei mezzi d’informazione pubblici. Tutto questo è bastato appena a garantire a Duda una vittoria di misura, nonostante una mobilitazione politica senza precedenti. Inoltre, anche se il Pis riprendesse il controllo sull’intero parlamento, compreso il senato, dove non ha la maggioranza assoluta – magari cercando di “comprare” qualche senatore – Duda sarebbe comunque meno dipendente dai capricci e dagli eccessi di Kaczyński.
I prossimi tre anni
D’altra parte, neanche l’opposizione è riuscita a superare certi suoi limiti: appare ancora troppo impegnata a gestire le tensioni interne, per esempio relative alle gerarchie tra partiti, e poco interessata a cercare di cambiare la realtà. Forse anche a causa della mancanza di un leader carismatico ed efficace com’era stato Donald Tusk, premier tra il 2007 e il 2014. Tuttavia dallo scorso inverno all’interno di Piattaforma civica è in corso un ricambio generazionale che potrebbe essere portato a termine proprio da Trzaskowski, forte di una buona campagna elettorale e di un risultato elettorale più che dignitoso.
A questo punto è comunque difficile immaginare cosa farà il governo nei prossimi tre anni, in cui non ci saranno scadenze elettorali. Si parla molto della rivoluzione illiberale che il Pis dovrebbe portare a compimento, ma ci vuole parecchia immaginazione, condita da altrettanta paura, per scorgere un progetto sistematico in quello che il governo ha fatto finora, dai tentativi di prendere il controllo delle istituzioni statali alle reazioni scomposte di fronte a intoppi e resistenze di vario tipo.
◆ Al ballottaggio delle presidenziali polacche, che si è tenuto il 12 luglio, il capo di stato uscente Andrzej Duda, sostenuto da Diritto e giustizia (Pis, il partito conservatore e nazionalista al governo dal 2015), ha sconfitto Rafał Trzaskowski, candidato del partito liberale Piattaforma civica (Po), con il 51 per cento dei voti contro il 49 per cento. Il primo turno si era svolto il 28 giugno. Inizialmente previsto per il 10 maggio, era stato rimandato a causa della pandemia, nonostante il Pis avesse cercato in ogni modo di far svolgere il voto nella data programmata, per sfruttare il vantaggio che allora Duda aveva nei sondaggi.
◆ “Dopo la vittoria di Duda, il Pis continuerà sulla sua strada e raddoppierà gli sforzi per portare a compimento il programma di governo prima delle elezioni del 2023”, scrive Wojciech Przybylski su Politico. “Questo significa terminare la riforma del sistema giudiziario, prendere il controllo dei mezzi d’informazione, centralizzare il potere e mettere a tacere la società civile. Ma il governo è vulnerabile in diversi campi: dipende dai fondi europei, ha bisogno di stringere alleanze strategiche per la sicurezza e vuole migliorare l’immagine internazionale del paese. Varsavia dovrà quindi fare dei compromessi. In quest’ottica, la rielezione di Duda può essere un’occasione per resettare i rapporti con l’Unione europea. E può far capire a Bruxelles che l’approccio usato finora con la Polonia non funziona. Il primo settore di una nuova potenziale cooperazione è l’economia. Per accedere alle risorse europee il governo polacco potrebbe accettare alcuni aspetti del green deal europeo che aveva sempre rifiutato, e potrebbe ammorbidirsi anche sulla questione del rispetto dello stato di diritto. Il secondo settore è la sicurezza: la Nato e l’Unione sono ancora essenziali per attenuare le preoccupazioni dell’Europa orientale rispetto al vicino russo. Infine l’Unione europea potrebbe aiutare il governo del Pis a cambiare l’immagine della Polonia, riconoscendo i traguardi raggiunti dal paese e adottando un nuovo approccio nei confronti di Varsavia. Questo non vuol certo dire risparmiare critiche in caso di violazione dello stato di diritto o di abusi nell’uso dei fondi europei. Ma con Diritto e giustizia al governo fino al 2023, Bruxelles dovrà trovare un modo per avviare un confronto costruttivo con la Polonia”.
Di questi presunti piani amano ragionare gli ideologi, i politologi e i giornalisti sempre pronti a mobilitarsi, soprattutto nei periodi elettorali. A seconda del committente per cui lavorano, evocano scenari terribili o paradisiaci. La cosa positiva è che questi megafoni ideologici smetteranno di martellare, almeno per un po’.
In questa campagna elettorale è stata alimentata una guerra culturale del tutto artificiale con uno zelo mai visto in passato. Artificiale perché la società polacca resta, per fortuna, piuttosto tiepida sui temi che – secondo alcuni – sarebbero decisivi per stabilire chi ha i titoli per appartenere alla civiltà e ha diritto a un posto in Europa e nella democrazia. I polacchi sono opportunisticamente conservatori, ma senza darlo a vedere sono aperti ai cambiamenti culturali e di costume. E i risultati del voto, con il paese diviso a metà, lo testimoniano con chiarezza. ◆ dp
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Questo articolo è uscito sul numero 1367 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati