Non sono ancora le sei del mattino, ma Mohamedou Ould Slahi è già sul set da ore. È in piedi su una duna di sabbia, trenta chilometri a sud di Nouakchott, la capitale della Mauritania. La troupe ha posizionato cineprese e fari intorno a un falò. Stanno girando una scena che racconta un episodio dell’infanzia di Slahi. Accanto al fuoco c’è un bambino addormentato, che interpreta lui a dieci anni. “Mohamedou, cosa ti diceva tuo padre nel deserto?”, chiede il regista. Slahi sorride. Risponde che suo padre gli cantava una canzone che parlava di dio, della vita e della morte. Si stira la camicia per eliminare le pieghe, poi intona una canzone : “Ti ringrazio, Allah, peril mio venire e andare, per i miei bambini e per i miei anni. Prima di morire spero che accetterai i miei sforzi”.
I versi del brano, originario della cultura beduina, raccontano la fiducia nel fato e come la vita, a volte, possa sembrare una tempesta. Parlano delle leggi del deserto che il padre di Slahi spiegava durante le loro passeggiate notturne con i cammelli. Slahi ha imparato a mantenere la calma e ad accettare il suo destino, qualunque sia. Probabilmente è per questo che è sopravvissuto a Guantanamo. Il carcere gli ha rubato 5.445 giorni di vita. È stato rapito in Mauritania dalla Cia poche settimane dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Gli statunitensi sospettavano che fosse uno degli organizzatori degli attacchi. Si sbagliavano, ma non l’hanno mai ammesso. Da quel momento la sua vita è diventata un incubo. È stato interrogato in Giordania, poi in Afghanistan. Alla fine lo hanno portato nel campo di detenzione di Guantanamo, a Cuba, dov’è diventato il detenuto numero 760.
Oggi la sua storia sta per diventare un film con Jodie Foster e Benedict Cumberbatch. Prisoner 760 uscirà nelle sale all’inizio del 2021. Cumberbatch interpreta il ruolo di un procuratore ultraconservatore, il generale Stuart Couch, l’uomo che avrebbe dovuto processare Slahi ma ha ritirato le accuse per mancanza di prove.
In una mattina di metà marzo, Slahi è seduto nel suo appartamento nel centro di Nouakchott. Tra poche ore dovrà tornare sul set. Versa il tè nei bicchieri di vetro. Racconta di quando i suoi torturatori lo caricarono su un motoscafo nel mar dei Caraibi. Era legato e bendato. Gli dissero che a nessuno sarebbe importato se fosse scomparso nell’oceano. Lo picchiarono fino a rompergli le costole. All’inizio era pieno di rabbia. “Avrei potuto lanciare una bomba sulla Casa Bianca”, dice.
Slahi ha 49 anni. Quando si sfila la tunica e il turbante, si vede che è un uomo magro, con la testa rasata, il volto delicato. Sotto il suo boubou damascato indossa una maglietta con la scritta choose love, scegli l’amore. A differenza di molti altri, a Guantanamo Slahi non è impazzito. Il detenuto 535, un egiziano, si era convinto di essere finito all’inferno. Nel 2003 ben 120 prigionieri hanno tentato il suicidio. Tra i detenuti scarcerati sono pochi quelli che hanno ripreso una vita normale. Slahi racconta che i suoni della sua infanzia l’hanno aiutato a resistere nelle ore più buie.
La porta aperta
Ha dovuto aspettare il 17 ottobre del 2016 perché gli uomini della Cia lo riportassero nel luogo dove lo avevano prelevato dieci anni prima, all’aeroporto di Nouakchott. A quel punto la sua vecchia vita non esisteva più. Sua madre era morta. Dopo la liberazione ha scritto un post su Facebook rivolgendosi ai suoi carcerieri. “Abbiamo imparato molto gli uni dagli altri. Spero che c’incontreremo di nuovo per una tazza di tè. La mia porta è aperta”. “Ho perdonato i miei aguzzini”, spiega. Anche perché era l’unico modo per sopravvivere senza impazzire.
Una soldata della marina statunitense ha risposto al messaggio di Slahi con una foto scattata davanti al muro di Berlino. “Ciao Pillow! Spero che vada tutto bene. Sono felice che tu sia a casa”. Pillow, cuscino in inglese, è il soprannome che gli avevano dato i soldati. Lo chiamavano così perché un cuscino era stato il primo oggetto che Slahi aveva potuto tenere in cella dopo la prima serie di torture, durata settanta giorni. “Voglio dirti che mi dispiace se ti ho fatto del male. Ti auguro il meglio nella vita”, ha commentato un altro soldato, che si fa chiamare Jedi. Jedi era a Guantanamo tra il 2003 e il 2004, il periodo peggiore per Slahi. Lo svegliava in continuazione, scuotendolo, gli impediva di dormire e di mangiare, e lo costringeva ad alimentarsi durante il ramadan. Ancora oggi Slahi subisce le conseguenze delle torture. Non può dormire in una stanza più grande della sua cella di Guantanamo e riesce ad addormentarsi soltanto se è da solo in camera. Spesso sogna di essere tornato in cella, nudo, sotto le luci dei neon, con l’inno nazionale degli Stati Uniti a tutto volume e i soldati che gli urlano addosso. Una parte di Guantanamo è ancora dentro di lui.
◆ 1970 Nasce a Rosso, in Mauritania.
◆ 1988 Vince una borsa di studio e si trasferisce in Germania.
◆ 1991 Va in Afghanistan e si arruola al fianco dei mujahidin per combattere contro il governo comunista.
◆ 2002 Viene fermato in Mauritania e rinchiuso a Guantanamo per 14 anni.
Slahi si è risposato due anni fa. Ha conosciuto la sua nuova moglie online. È statunitense e lavora a Berlino. La coppia ha un figlio di un anno. Per Slahi è un nuovo inizio, ma anche una sfida. Le sevizie che ha subìto a Guantanamo sono diventate parte di lui. Il contatto fisico gli provoca dolore.
Quando Slahi cammina nelle strade del quartiere Tevragh-Zeina, a Nouakchott, gli autisti lo salutano suonando il clacson. Le ragazze lo chiamano per nome, come se fosse una rock star. Qualcuno gli chiede di scattare una foto. In Mauritania è considerato un eroe. Le ragazze dicono che ha resistito all’ingiustizia degli Stati Uniti e ha sconfitto la più grande superpotenza del mondo.
Durante la prigionia Slahi ha scritto un libro, 12 anni a Guantanamo (Piemme 2015), diventato un best seller e tradotto in 27 lingue. È l’unico resoconto autentico di un ex detenuto scritto all’interno della prigione. L’avvocata di Slahi, Nancy Hollander, conduce da anni una battaglia legale contro le autorità di Washington per riuscire a pubblicare il manoscritto negli Stati Uniti. Il libro è anche la base del film Prisoner 760: racconta la storia di Slahi, un beduino della tribù Idab Lahsan che viene dal sudovest della Mauritania e ha vinto una borsa di studio per i suoi risultati scolastici. Il ragazzo studia ingegneria elettronica e va a vivere in Germania. Poi un giorno riceve la telefonata di un cugino del Sudan. Suo cugino è un seguace di Osama bin Laden, fondatore di Al Qaeda. Chiama Slahi dal telefono del terrorista e gli chiede di mandargli dei soldi per curare il padre malato. Slahi accetta. Ma la telefonata viene intercettata dalle spie statunitensi, e la Cia si convince che Slahi sia il capo reclutatore di Bin Laden in Germania. Un errore che le autorità statunitensi non hanno mai riconosciuto e per il quale non hanno mai chiesto scusa.
Pochi giorni dopo ritrovo Slahi su una spiaggia di Nouakchott. Stanno girando la scena del matrimonio, in cui centinaia di ospiti affollano una tenda beduina. Slahi è interpretato da un attore francese. Tra gli invitati ci sono anche gli ambasciatori di Stati Uniti e Regno Unito. L’ambiente è rilassato. Jodie Foster interpreta Nancy Hollander, l’avvocata di Slahi. “È difficile immaginare che un uomo possa sopportare una cosa simile”, dice l’attrice.
Il governo degli Stati Uniti sostiene che Slahi sia un manipolatore. Agli occhi di quelli che continuano a sorvegliarlo ancora oggi, il fatto che un’avvocata famosa come Nancy Hollander abbia deciso di difenderlo gratuitamente è una conferma dei loro sospetti: Slahi è “un cattivo”, come scrivono i diplomatici statunitensi ai loro colleghi quando Slahi chiede un visto per un paese occidentale, Germania compresa. Nel frattempo lui ha completato un corso a distanza presso un’accademia internazionale ed è diventato un life coach. È convinto che il suo passato gli permetta di aiutare le persone ad affrontare lo stress.
Il suo prossimo libro è già finito. Parla di un beduino il cui cammello si perde seguendo la carovana sbagliata, e delle avventure del proprietario che cerca di recuperare l’animale. Slahi vorrebbe mantenersi con i suoi libri e diventare un attivista per i diritti umani. Gli piacerebbe andare a Berlino, dove vivono la moglie e il figlio. Ma finora non ha ricevuto l’autorizzazione. Da quando è stato rilasciato da Guantanamo il governo tedesco non ha mai voluto concedergli un visto. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1365 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati