La mattina del 1 giugno, quando Charlie Mai e suo fratello Henry hanno detto ai genitori che avrebbero partecipato alla manifestazione di Black lives matter che ci sarebbe stata quel pomeriggio a Washing­ton, in famiglia è scoppiata una discussione accesa. Il padre, Glenn Mai, era contrario. Agente dell’Fbi in pensione, 54 anni, Glenn è cresciuto a Dallas in una famiglia di immigrati cinesi. Da piccolo i suoi genitori gli insegnarono che lavorando duro avrebbe avuto successo. “La cultura cinese si basa sul lavoro all’interno del sistema”, spiega. Nel corso della sua carriera nella polizia, l’uomo ha maturato la convinzione che il sistema funzioni, ma suo figlio Charlie, che ha 24 anni, non è per niente d’accordo. “Mio padre crede che negli Stati Uniti tutti abbiano la possibilità di avere successo nella vita. Ma è assolutamente falso”. Charlie vive a New York, ma a causa della pandemia si è trasferito nella casa di famiglia nel nord della Virginia, non lontano dalla capitale. “L’idea che attraverso il lavoro duro si ottengono sempre dei risultati fa parte della mentalità degli asiatici. Mi fa innervosire, perché è chiaramente un’illusione”.

Quella mattina di giugno, tra urla e lacrime, Glenn ha minacciato di andarsene di casa quando ha capito che Charlie e Henry, 22 anni, avevano intenzione di violare il coprifuoco alle sette di sera imposto dalla sindaca di Washington. Alla fine, però, si è offerto di andare a riprendere i figli in macchina dopo la manifestazione. Da allora la discussione in famiglia sulle proteste, gli abusi della polizia e il razzismo si è evoluta, trasformandosi in un dialogo approfondito. All’epoca del movimento per i diritti civili, negli anni cinquanta e sessanta, i genitori neri e i loro figli potevano essere in disaccordo sui tempi o la strategia, ma condividevano le stesse esperienze di discriminazione. Inoltre in quel periodo era piuttosto raro che persone che non fossero afroamericane partecipassero alle dimostrazioni.

New York, 2 giugno 2020 (Ira L. Black, Corbis/Getty)

Invece queste proteste, scoppiate dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis, sono molto più variegate. Tra i manifestanti ci sono gli afroamericani, soprattutto giovani, che hanno sostenuto il movimento Black lives matter fin dalla fondazione, nel 2013, oltre a molti figli di immigrati neri e bianchi che hanno avuto una vita radicalmente diversa da quella dei genitori. Ma ci sono persone che vengono da altri contesti ancora, come i discendenti di immigrati arrivati negli Stati Uniti molte generazioni fa e chi proviene da famiglie che si sono trasferite nel paese dopo l’approvazione del Naturalization act del 1965, favorita proprio dal movimento per i diritti civili. “Stiamo assistendo a una trasformazione cominciata decenni fa. È un vero cambiamento culturale”, spiega Jose Antonio Vargas, ex giornalista del Washington Post e fondatore di Define american, un’organizzazione che difende i diritti degli immigrati.

**Ricordi cancellati **

Vargas crede che, anche se le dinamiche tra neri e bianchi monopolizzano l’attenzione dell’opinione pubblica, la composizione di questo movimento “è molto più variegata”. Secondo lui le persone di origine asiatica, gli ispanici e i giovani di altre comunità si stanno mobilitando per combattere il razzismo contro i neri e stanno formando “un nuovo tipo di maggioranza”. E, nel farlo, convincono anche i loro genitori del fatto che c’è bisogno di un cambiamento. Il suo punto di vista è condiviso da molti esperti, manifestanti e genitori. “Oggi non ci sono molti motivi per essere ottimisti”, sottolinea Vargas, “ma questa dinamica fa ben sperare”.

Gisselle Quintero, studente universitaria di 18 anni, ha colto il dolore sul volto di suo cugino di 15 anni mentre guardavano insieme il video in cui il poliziotto Derek Chauvin preme il ginocchio sul collo di George Floyd per quasi nove minuti, mentre Floyd cerca disperatamente di respirare. Il ragazzo, che è afroamericano, vive con la famiglia Quintero a Marysville, California. Gisselle lo considera un fratello. All’inizio le proteste contro la polizia non hanno toccato Marysville, una comunità agricola e conservatrice. Così Quintero ha deciso che bisognava fare qualcosa.

I primi di giugno Gisselle ha organizzato attraverso i social network una manifestazione di protesta davanti a un centro commerciale vicino a casa sua. I genitori, commercianti di origine messicana e sostenitori di Trump, erano fortemente contrari. “All’inizio dicevano ‘è una stupidaggine, tutte le vite sono importanti, non solo quelle dei neri’. Non riuscivano a vedere il quadro generale, non capivano che il sistema è fuori controllo, che nessuno merita di essere soffocato con un ginocchio sul collo per otto minuti solo perché ha usato una banconota falsa”.

Molti adulti di origine asiatica si rifanno al “mito della minoranza modello”

Quintero è cresciuta ascoltando i racconti dei nonni, che nel periodo della segregazione razziale non potevano bere alle fontane riservate ai bianchi dopo sfiancanti giornate di lavoro nei campi. “I miei genitori hanno cancellato quei ricordi” e hanno cercato di distinguersi lavorando duro e ottenendo successo nella vita. “Ma ancora oggi non sono accettati dalla comunità bianca. Ho la sensazione che buona parte della comunità messicana sia razzista. È una follia, non te lo aspetteresti mai”. Centinaia di persone hanno partecipato alle manifestazioni organizzate da Quintero per giorni. La madre di Gisselle, Elizabeth, ha cominciato ad andarci per assicurarsi che lei non corresse pericoli, ma con il passare del tempo è rimasta colpita dalle storie di razzismo raccontate dai neri che prendevano la parola.

Il terzo giorno Elizabeth ha portato con sé anche il marito Wilfredo. “Ha cantato gli slogan con gli altri”, racconta la figlia. “Alla fine dell’ultima manifestazione mia madre ha parlato di sé, del fatto che inizialmente non sosteneva il movimento Black lives matter ma che dopo aver ascoltato quelle storie, da madre, la sua mente si è aperta. Ha commosso tutti”.

Elizabeth, 39 anni, dice che continuerà a sostenere Trump perché è cattolica e antiabortista, e lo stesso vale per suo marito. Ma la sua opinione sul movimento Black lives matter è cambiata. “Nella nostra comunità ci sono persone razziste, anche se personalmente non ho mai subìto abusi”, racconta Elizabeth, che si considera una ispanica bianca e la cui famiglia vive negli Stati Uniti da molte generazioni. “Non avevo nessuna conoscenza reale del razzismo. È stata un’esperienza rivelatrice”.

Alexa Delon, una ragazza di 18 anni di Portage, nel Michigan, ha adottato un atteggiamento diverso con i genitori quando la protesta ha coinvolto la vicina città di Kalamazoo. Dopo che nel 2012 un vigilante di una ronda di quartiere ha ucciso Trayvon Martin a Sanford, in Florida, ha capito “che all’America non importa niente dei neri”, racconta Delon, studente di origini messicane. Delon dice che di questa America fanno parte anche il padre, dipendente di un’impresa di pulizie, e la madre, che l’hanno cresciuta inculcandole valori contraddittori. “Hanno insegnato a me e ai miei fratelli ad amare tutti per quello che sono, e che il colore della pelle non ha importanza”, spiega. Ma una volta le hanno anche detto di “fare attenzione ai neri, perché si sa che sono criminali”.

Delon ha cercato di convincere i genitori a guardare con occhio critico le notizie che ricevono dai canali in lingua spagnola, secondo lei interessati quasi esclusivamente ai saccheggi avvenuti nel corso di proteste che quasi sempre sono pacifiche. Oggi suo padre sta cercando di seguire i suoi consigli su come usare Twitter. “Devono capire che la tv non dice sempre la verità”, spiega. “Se riuscissimo a convincere le persone più anziane a essere meno passive potremmo innescare una reazione a catena”.

Jasmine Haywood, che studia il razzismo contro i neri nelle comunità ispaniche, spiega che tanti latinoamericani che arrivano negli Stati Uniti si portano dietro i pregiudizi contro i neri radicati nella storia del colonialismo e della schiavitù nei loro paesi. Secondo lei molti cercano di integrarsi adottando le posizioni razziste “della maggioranza bianca”, come la convinzione che i neri siano violenti e pigri.

Da sapere
La settimana di Donald Trump

◆ “Nell’ultima settimana il presidente Donald Trump ha alzato il livello dello scontro politico”, scrive New Republi c. Il 20 giugno il presidente ha chiesto al ministro della giustizia di licenziare Geoffrey S. Berman, il procuratore dello stato di New York che negli ultimi anni ha indagato su alcuni ex collaboratori di Trump, tra cui Michael Cohen e Rudy Giuliani. Lo stesso giorno ha tenuto un comizio a Tulsa, in Oklahoma, pur sapendo che gli assembramenti sono rischiosi in tempi di pandemia. Durante il suo discorso ha detto che i tamponi sono un’arma a doppio taglio, perché più se ne fanno più si trovano persone positive, per cui ha chiesto ai suoi collaboratori di farne meno. Questo mentre in molti stati, tra cui Texas, Florida e Arizona, il virus si sta diffondendo come mai prima d’ora. Secondo il Washington Post questi dati hanno portato il governo federale a mettere in conto l’eventualità di una seconda ondata di contagi in autunno.

◆Il 22 gennaio Trump ha firmato un ordine esecutivo che estende fino al 31 dicembre il divieto di ingresso nel paese ad alcune categorie di lavoratori e riduce la possibilità di ottenere le green card, permessi di soggiorno permanenti. Secondo Trump, queste misure servono a creare posti di lavoro per gli statunitensi in difficoltà a causa della pandemia. La decisione è stata molto criticata dagli imprenditori, che ricordano come tra gli immigrati ci siano sia lavoratori altamente specializzati sia persone che fanno lavori che gli statunitensi non vogliono fare.

◆Infine il presidente ha criticato la corte suprema, che il 18 giugno ha stabilito che il presidente non può cancellare il programma Daca, approvato durante l’amministrazione Obama per proteggere dall’espulsione circa 700mila immigrati senza documenti arrivati negli Stati Uniti da bambini. Trump ha detto che vuole comunque cancellare il programma.


La cultura popolare

“Nessuna comunità è immune alla pervasività del suprematismo bianco”, sottolinea Haywood. Eppure i giovani ispanici, quelli di origine asiatica e i loro coetanei che fanno parte della comunità degli immigrati neri hanno maggiori probabilità di condividere aule, quartieri e amicizie con i discendenti degli schiavi, ed è innegabile che siano profondamente influenzati dalla musica hip hop che ha dato voce alla comunità nera. Su questo punto Haywood e Vargas concordano. “È qui che entra in scena il potere della cultura popolare”, spiega Vargas, nato nelle Filippine. “Non si può amare la cultura nera senza amare i neri. Questa cultura crea una grande influenza e una grande empatia”.

Al contrario, molti asiatici statunitensi più in là con gli anni non riescono a cogliere “il linguaggio del privilegio”, spiega Kim Tran, un’esperta di questioni legate alla diversità che si è concentrata sul crescente sentimento di vicinanza mostrato dai giovani di origine asiatica nei confronti del movimento Black lives matter. Dato che il privilegio è “inseparabile dall’essere bianco”, è difficile da afferrare per la maggior parte degli asiatici. Il linguaggio del privilegio, inoltre, “rinnega l’esperienza di molti anziani asiatici che hanno vissuto enormi sofferenze”, sottolinea Tran, che ha 33 anni ed è figlia di due profughi arrivati negli Stati Uniti nel 1975, alla fine della guerra del Vietnam.

Molti adulti di origine asiatica, in particolare, si rifanno al “mito della minoranza modello” sostenuto dalla maggioranza bianca. Un mito, secondo Tran, che è stato applicato inizialmente agli immigrati giapponesi che cercavano di integrarsi nella cultura statunitense dopo essere stati messi nei campi di prigionia durante la seconda guerra mondiale, e poi fu allargato alle altre comunità asiatiche. Nella sostanza questo approccio pone gli asiatici in cima alla piramide sociale, considerandoli moralmente superiori alle altre minoranze e sottolineandone l’etica del lavoro, l’intelligenza e la determinazione.

Da sapere
Nuova minoranza
Popolazione statunitense nel 2018 e nel 2060 (proiezioni), percentuale (Fonte: Brooking institution)

Padre pentito

Il mito “offre agli immigrati asiatici un modo per inserirsi facilmente nel tessuto sociale statunitense” cavalcando il concetto secondo cui il duro lavoro porta sempre al successo. Ma allo stesso tempo, precisa Tran, ignora i vantaggi di cui hanno beneficiato gli asiatici-statunitensi dal punto di vista formativo e burocratico rispetto ad altre minoranze, e naturalmente ignora anche il razzismo nei confronti degli afroamericani. “È un sistema che mira a dividere le persone di comunità diverse. Si basa interamente sul razzismo contro i neri”, spiega Tran.

Glenn Mai ha vissuto un’infanzia serena a Dallas, educato da due genitori che erano scappati dalla Cina della rivoluzione culturale e avevano messo in piedi una fiorente azienda tecnologica. Da ragazzo faceva parte dei boy-scout e frequentò una scuola privata in cui era uno dei pochi ragazzi di origine asiatica. I suoi genitori avevano pochissimi rapporti con gli afroamericani, e la madre “aveva paura” dei neri, anche se Mai attribuisce questo timore più all’ignoranza che al razzismo. Negli anni ottanta, dopo essersi laureato all’università in ingegneria elettronica, come suo padre, Mai decise di cambiare strada. Entrò nella Cia e poi nell’Fbi, convinto di poter contribuire a cambiare le cose da dentro il sistema. Pur avendo collaborato spesso con i dipartimenti di polizia locali, racconta di non aver mai visto agenti che trattavano dei neri in modo brutale, ed è convinto che le forze dell’ordine siano prese di mira ingiustamente.

I suoi figli, però, hanno intrapreso un percorso diverso. Dopo la laurea in storia del teatro, Charlie ha scelto una vita da artista. Oggi scolpisce opere che affrontano il tema del razzismo. Henry, il fratello minore, si è laureato in sociologia appassionandosi ai corsi sulla questione razziale e sull’incarcerazione di massa. I due fratelli credono che gli afroamericani si trovino di fronte barriere strutturali che non esistono per gli statunitensi bianchi. Crescendo in un ambiente diversificato “capisci subito che i problemi degli altri sono i tuoi problemi. Se vuoi bene a qualcuno devi sostenerlo”, spiega Charlie Mai.

Il 1 giugno, quando Charlie e Henry sono usciti per andare a Washington, il padre era furioso soprattutto perché i figli volevano violare il coprifuoco. Aveva paura che fossero coinvolti nella rivolta e potessero essere feriti. Glenn è convinto che la violenza e il mancato rispetto della legge compromettano qualsiasi causa. La moglie Mary Byrne, che ha 54 anni ed è di origine irlandese, si sente più vicina alle idee dei figli. Tuttavia, quel pomeriggio “abbiamo avuto la lite più furibonda della nostra vita familiare”, ammette.

Quel pomeriggio Charlie e Henry sono usciti per andare a Washington e si sono ritrovati a Lafayette square, la piazza che si trova di fronte alla Casa Bianca. Glenn era in casa, contrariato, ma non riusciva a staccare gli occhi dalle notizie in tv. Ha osservato sullo schermo gli agenti che lanciavano lacrimogeni per allontanare i manifestanti dalla piazza, in modo da permettere a Trump di farsi fotografare con una Bibbia in mano davanti alla chiesa di St. John, vicino alla piazza. I suoi figli erano nelle retrovie, ma non abbastanza da evitare il caos e i lacrimogeni.

A tarda notte, quando Charlie e Henry sono tornati a casa, Glenn ha ammesso di aver cambiato idea. Mary ricorda di avergli sentito dire: “Avete ragione, il contratto sociale è stato infranto. Ho sbagliato. Il governo non stava proteggendo la popolazione”.

Anche se resta convinto che sia meglio stare nel sistema per cambiare le cose, Glen riconosce che le proteste hanno già innescato alcuni cambiamenti nella società. L’episodio in cui alcuni poliziotti di Buffalo hanno spinto a terra un manifestante di 75 anni provocandogli una frattura cranica lo ha messo davanti alla brutalità della polizia. In ogni caso Glenn non ha intenzione di diventare un attivista, preferisce trascorrere l’età della pensione facendo birdwatching. “Non è la mia lotta”. I fratelli Mai hanno consigliato al padre diversi libri e articoli sulla questione razziale, ma Charlie ammette che Glenn “dovrà fare molta strada” prima di decidere di impegnarsi in prima persona. In ogni caso il ragazzo pensa che il dialogo che si è creato con il padre sia molto utile.

“I figli non possono chiedere ai genitori di liberarsi dei loro scudi da un momento all’altro. I loro meccanismi di difesa non sono il risultato di una scelta consapevole. Come possiamo essere sensibili alle problematiche attuali se non siamo sensibili ai problemi dei nostri genitori?”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1364 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati