È una vecchia storia, un caso d’altri tempi che porta quattro uomini, di età compresa tra 69 e 78 anni, davanti al tribunale di Milano e ci riporta indietro di quasi mezzo secolo, all’estate del 1975. Siamo all’inizio della stagione dei sequestri, quando in Italia i rapimenti e le richieste di riscatto seminavano il panico. Secondo l’accusa, i quattro pensionati sono legati alla ’ndrangheta e in tribunale dovranno rispondere dei fatti legati a quella che si può definire una missione di inizio carriera, viste le esperienze successive. Ma il caso Mazzotti è molto di più: è una vicenda che perseguita i magistrati come una storia maledetta.

A duecento metri da casa

Partiamo dalle presentazioni del quartetto. Demetrio Latella, condannato all’ergastolo in un altro processo, da allora cerca di non attirare l’attenzione facendo una vita da modesto giardiniere. Giuseppe Calabrò, detto u dutturicchiu (il dottorino), un’allusione ai suoi studi di medicina, è stato condannato diverse volte per traffico di droga e si è stabilito a Milano. Antonio Talia è sospettato di essere vicino ai clan di Africo, in Calabria. Quanto a Giuseppe Morabito, il più anziano del gruppo, è un boss della ’ndrangheta che si è stabilito da tempo in Lombardia. Questi quattro uomini, che ora sono in libertà nonostante il curriculum, rischiano l’ergastolo. Sono sospettati di essere i responsabili del rapimento, avvenuto nelle vicinanze del lago di Como nell’estate del 1975, e dell’omicidio di Cristina Mazzotti, una studente allora diciottenne. All’epoca l’organizzazione criminale calabrese si affidava ai riscatti che otteneva con i rapimenti. Accumulava denaro e faceva paura in tutta Italia. Intanto metteva le radici anche nel nord della penisola. Il più famoso di questi rapimenti fu quello dell’allora sedicenne John Paul Getty III, avvenuto nel 1973. All’erede della dinastia industriale statunitense fu tagliato un orecchio, poi il ragazzo venne liberato su un’autostrada dopo cinque mesi di prigionia e il pagamento di un riscatto di 1,7 miliardi di lire (equivalenti a 12,6 milioni di euro di oggi). In questo contesto, due anni dopo, fu presa di mira la famiglia Mazzotti. Helios, il padre, era un ricco commerciante di cereali che viaggiava spesso in Argentina. Lui e la moglie Carla avevano tre figli: Vittorio, Marina e la più piccola, Cristina, soprannominata “Cri-Cri”.

Novara, novembre 1976. Durante un’udienza del primo processo (Benzi/Rcs/Contrasto)

Nell’estate del 1975 la gioventù dorata di Milano prolungava le sue serate nei bar e nelle ville sulle rive del lago di Como, cullata dalla musica di Claudio Baglioni trasmessa alla radio. Il 30 giugno era un giorno speciale per Cristina: aveva festeggiato la fine del liceo e il suo diciottesimo compleanno.

A bordo di una Mini blu metallizzata Cristina, Carlo ed Emanuela, un trio inseparabile, stavano rientrando a Eupilio, il paese dove la famiglia Mazzotti aveva una casa di campagna. La villa era a poche centinaia di metri quando due auto, un’Alfa Romeo e una Fiat 125, sbucarono dal nulla e bloccarono la Mini. Dentro le due auto c’erano quattro uomini incappucciati. Uno di loro urlò: “Chi è Cristina Mazzotti?”. La ragazza fu portata via con la forza. Pochi giorni dopo una sua foto in bianco e nero era sulle prime pagine dei giornali: un volto da Monna Lisa con un sorriso gentile e occhi neri. La villa di Eupilio si trasformò nel quartier generale dove la famiglia e i carabinieri aspettavano che il telefono squillasse. La prima chiamata non tardò ad arrivare: un uomo che si presentò come “il marsigliese” chiese il pagamento di un riscatto da cinque miliardi di lire. Una cifra da capogiro, impossibile da trovare anche per un imprenditore di successo come Mazzotti. Fu subito chiaro che la vita di Cristina era in pericolo. Cominciò una corsa contro il tempo.

A metà luglio i rapitori ridimensionarono le loro ambizioni e chiesero un miliardo di lire. Helios Mazzotti vendette tutti i suoi beni, chiese dei prestiti, ipotecò la casa e riuscì a raccogliere la somma richiesta, consegnata poi ai rapitori secondo le indicazioni del marsigliese. Ma Cristina non fu liberata e la famiglia non ebbe più sue notizie.

Il 1 settembre, a due mesi dall’inizio del sequestro, su segnalazione di un sospettato le forze dell’ordine scavano in una discarica di Galliate, in provincia di Novara, un paese a un’ora di auto da Eupilio. Sotto un cumulo di rifiuti trovarono il corpo scheletrico di Cristina. Secondo la polizia scientifica, la giovane, denutrita e drogata, era morta da un mese e mezzo.

La folla ai funerali

A Eupilio arrivarono più di trentamila persone per i funerali. Quando il 5 aprile 1976 il padre di Cristina morì le indagini erano quasi concluse. Un banchiere svizzero aveva contattato la polizia italiana dopo aver notato un versamento sospetto, che si scoprì far parte del riscatto. L’uomo che aveva versato il denaro era Libero Ballinari, un contrabbandiere noto alla polizia di Milano. Una volta arrestato fece i nomi di alcuni complici del sequestro.

Nel 1977 dodici uomini e una donna furono condannati dalla corte d’assise di Novara, otto di loro all’ergastolo. Un gelataio, un macellaio, un geometra dedito al traffico di droga. Ma erano solo pesci piccoli, abitanti del posto travolti da un’operazione criminale più grande di loro. È come se questo rapimento simbolico – Cristina Mazzotti è stata la prima donna uccisa dalla ’ndrangheta dopo una richiesta di riscatto – non fosse stato ideato e organizzato da nessuno. Nemmeno dal “marsigliese”, la persona incaricata delle telefonate. Il suo nome era Stefano Spadaro, ed era di origine calabrese. Ma da lui non potrà più arrivare nessuna informazione: è morto in una clinica romana, da latitante, durante un intervento alle corde vocali per farsi modificare la voce.

Quanto agli occupanti dell’Alfa Romeo e della Fiat – “con accento meridionale”, sottolinea l’amica di Cristina – anche loro sono scomparsi. “Sapevamo che non erano tutti presenti al processo”, dice oggi a Le Monde una fonte in ambiente giudiziario.

Il volto di Cristina Mazzotti perseguitò a lungo le persone che vivono sulla riva del lago di Como, dai giornalisti locali ai carabinieri

A casa era meglio non parlare

La famiglia Mazzotti dovette accontentarsi di questa sentenza in contumacia e vivere con la certezza che gli organizzatori erano ancora in libertà. Anche i soldi del riscatto sparirono nel nulla. “A casa era meglio non parlarne, per proteggere soprattutto la madre di Cristina. Era un dolore latente, ma senza spirito di vendetta”, ricorda Arianna Mazzotti, nipote di Cristina, responsabile della fondazione creata da Helios nel 1975 in memoria della figlia. “Sapevamo che i responsabili erano ancora in libertà”, continua, “e abbiamo saputo gli sviluppi giudiziari dai giornali”.

Eppure il volto di Cristina perseguitò a lungo le persone che vivono sulla riva del lago di Como, dai giornalisti locali ai carabinieri. Perseguitò anche Pierangelo Ceruti, l’impresario di pompe funebri la cui sagoma s’intravede, di spalle, in una foto scattata il giorno del ritrovamento del corpo. Sotto shock, il giovane incaricato di recuperare il corpo cominciò a raccogliere qualsiasi possibile informazione sul caso, fino al più piccolo ritaglio di giornale. Quando nel 1977 nacque sua figlia decise addirittura di chiamarla Cristina. Lei ha poi studiato criminologia con l’unico obiettivo di scrivere una tesi sul caso Mazzotti. “Le indagini sono state condotte con i mezzi a disposizione all’epoca, soprattutto intercettazioni telefoniche e codici alfanumerici sulle banconote”, spiega Cristina Ceruti. “Ma le persone condannate nel 1977 facevano parte della bassa manovalanza, gente inconsapevole in cerca di soldi facili. Con il loro silenzio sui mandanti hanno permesso di prolungare il mistero, fino a quando nuove tecniche investigative non hanno cambiato tutto”.

Il caso fu riaperto nel novembre 2006 grazie a un’impronta digitale, quella del palmo di una mano destra presa all’epoca dei fatti sulla Mini. Era stata trovata una corrispondenza nel database del sistema d’identificazione delle impronte digitali, appena inaugurato.

Era di Demetrio Latella, detto Luciano, un killer della ’ndrangheta con una fedina penale molto lunga. Latella ha confessato di essere stato a bordo della Fiat 125 la notte del 30 giugno 1975 e ha fatto altri tre nomi di ’ndranghetisti tra cui Calabrò (”il dottorino”) e Talia. A trent’anni dall’omicidio, si apriva finalmente la pista mafiosa.

Nonostante la svolta, il caso, rinviato alla procura antimafia di Torino, si arenò e nel 2012 intervenne la prescrizione. Poi, tre anni dopo, una nuova legge cambiò la situazione: i reati puniti con l’ergastolo – come il caso Mazzotti – non erano più soggetti a prescrizione.

Il procedimento a quel punto ha preso una nuova direzione. I nomi sono stati fatti trapelare goccia a goccia da alcuni collaboratori di giustizia durante gli interrogatori per altri reati o con confessioni scritte. “Le vere menti e gli organizzatori sono rimasti impuniti”, afferma Antonio Zagari, un collaboratore di giustizia considerato affidabile, oltre che un profondo conoscitore dei legami tra i clan calabresi e la microcriminalità milanese. Nel suo libro Ammazzare stanca (Aliberti 2008) riporta le parole di Fabio Repici, avvocato della famiglia Mazzotti: “Le banconote del riscatto potrebbero essere state riciclate anche nei casinò del Norditalia e della Costa Azzurra, uno dei tratti distintivi della ’ndrangheta”. Sulla base di questi elementi il 9 novembre 2022 la procura di Milano, che ha preso in carico il caso, ha chiuso le indagini. Secondo l’ordinanza di rinvio a giudizio, i quattro imputati “hanno partecipato attivamente alla fase esecutiva del sequestro”. Tre di loro sono sospettati di aver partecipato direttamente. Il quarto, Morabito, il cui ruolo non è ancora chiaro, è sospettato di essere stato uno degli organizzatori.

Processo a porte chiuse

In casa Mazzotti la notizia di questo nuovo processo è stata accolta con pacatezza. Solo Carla Mazzotti non potrà seguire i nuovi sviluppi: è morta il 6 luglio 2023, all’età di 98 anni, e ora riposa nel cimitero di Eupilio accanto alla figlia Cristina.

Per gli inquirenti, le speranze di usare il caso Mazzotti come lente d’ingrandimento sulla storia della ’ndrangheta sono poche. Tanto più che la strategia difensiva degli imputati è fedele ai precetti di omertà dell’organizzazione. Dopo essersi avvalsi della facoltà di non rispondere, due di loro hanno chiesto di essere processati con il rito abbreviato, un procedimento speciale che si svolge a porte chiuse e che prevede che si venga giudicati solo in base agli atti raccolti nel corso delle indagini. In questo caso non c’è il rischio di nuove testimonianze che potrebbero vanificare quarantotto anni di silenzio. Nonostante l’intrigante quartetto, il caso Mazzotti potrebbe mantenere ancora parte del suo mistero. ◆ gim

Il processo comincerà il 25 settembre 2024 davanti ai giudici della corte d’assise di Como.

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Questo articolo è uscito sul numero 1536 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati