06 agosto 2019 10:14

La dottoressa Grace Hangi ha trovato illuminante quello che ha sentito mentre si nascondeva da uomini armati che stavano bruciando l’ambulatorio dove lavorava per curare l’ebola. Gli aggressori accusavano il personale sanitario di volersi “arricchire”. La dottoressa Hangi è riuscita a scappare. Ma quando è tornata verso i resti dell’ambulatorio molti pazienti erano fuggiti, riportando così il virus nei loro villaggi.

Quanto accaduto quel giorno di febbraio a Butembo, una città nella regione nordorientale della Repubblica Democratica del Congo, è piuttosto comune, per quanto orribile. Ambulatori e personale sanitario impegnati contro l’ebola hanno subìto circa 200 attacchi quest’anno. A occhi esterni queste violenze non hanno senso. Gli ambulatori non solo curano gli ammalati, ma arginano la diffusione di un virus che provoca febbre, emorragie e morte.

L’attuale epidemia nella Rdc è la seconda più grave della storia. Sono stati registrati 2.700 casi e 1.700 persone sono morte. Il 17 luglio l’Organizzazione mondiale della sanità l’ha dichiarata un’emergenza globale, per il timore che possa diffondersi nei paesi vicini, l’Uganda, il Ruanda e nel Sud Sudan senza legge. Gli ambulatori e i vaccini finanziati dai donatori sono la migliore difesa contro l’ebola. Purtroppo molti congolesi non la pensano così.

Il mito pericoloso dell’ebola inesistente
Dopo anni di corruzione e guerra civile, gli abitanti si aspettano solo abusi dal loro governo. Dopo aver subìto i saccheggi di nove eserciti stranieri, non hanno alcuna fiducia in chi viene da fuori. Perciò quando gli operatori umanitari sono arrivati a Butembo, molti abitanti del posto non li hanno considerati come salvatori, ma come stranieri a bordo di luccicanti fuoristrada. Hanno dato per scontato che queste persone si stessero arricchendo in modo disonesto, perché è quello che fanno i potenti.

Del resto, i soldati di peacekeeping inviati dalle Nazioni Unite a proteggere gli operatori umanitari hanno pattugliato la città a bordo di veicoli corazzati. In alcuni casi le forze di sicurezza locali hanno radunato con la forza i malati e li hanno costretti a farsi visitare negli ambulatori, da dove alcuni non sono usciti vivi. Tanti non hanno creduto che questi decessi siano stati provocati dall’ebola. Secondo Justus Nseo, coordinatore della risposta all’emergenza dell’ebola a Butembo, circa il 40 per cento degli abitanti del posto non crede all’esistenza dell’ebola. Alcuni politici locali contribuiscono a diffondere la bugia che il virus non esiste.

Riformare la Rdc è come combattere contro un virus mortale in una zona di guerra caotica

Spesso gli operatori sanitari non sanno nemmeno chi li sta attaccando. In Nord Kivu, la provincia dove si trova Butembo, sono attive decine di milizie. Alcuni attacchi possono essere organizzati da politici locali, con l’obiettivo di scacciare le ong che si sforzano di impedire l’appropriazione indebita dei fondi dei donatori. La violenza spesso ostacola igli aiuti. “Non passa giorno senza problemi”, afferma il dottor Nseo.

Eppure c’è speranza. Gli ambulatori di Butembo sono stati ricostruiti. Le persone sospettate di aver contratto il virus sono state isolate in cubicoli circondati da teli di plastica trasparente, così i parenti possono vederle e parlare con loro senza rischiare di infettarsi. In tutto l’est del paese sono spuntate postazioni per lavarsi le mani e i piedi e arginare così la diffusione del virus.

Kavo Donse, un’infermiera che ha contratto l’ebola da un paziente, è stata curata in uno degli ambulatori ricostruiti. La sua febbre straziante, i mal di testa e la diarrea emorragica sono sparite. È tornata al suo lavoro, salvare vite umane. Il fatto che molti dei suoi vicini pensino ancora che il virus sia un mito le provoca un sorriso triste. E i delinquenti che hanno bruciato l’ambulatorio? “Che dio possa perdonarli”, dice.

Promesse complicate
Riformare la Rdc è come combattere contro un virus mortale in una zona di guerra caotica, solo più complicato. Il nuovo presidente Félix Tshisekedi ha giurato di combattere la povertà, la corruzione la violenza, la mancanza di istruzione, di strade e di elettricità. Per farlo dovrà vedersela con avidi signori della guerra, funzionari civili corrotti, una classe politica senza princìpi e una popolazione insofferente.

Questo sarebbe già difficile per un presidente con un ampio mandato popolare. Tshisekedi però non ce l’ha. Il suo predecessore, Joseph Kabila, ha dovuto accettare di farsi da parte solo perché aveva superato di due anni il limite imposto al suo mandato. Secondo stime indipendenti, a dicembre è stato l’uomo d’affari Martin Fayulu a vincere le elezioni, con il 60 per cento dei voti. Il successore scelto da Kabila, Emmanuel Shadary, ha avuto così pochi voti che i funzionari non hanno potuto fingere che avesse vinto. Kabila ha invece siglato un accordo con il meno minaccioso dei suoi oppositori, Tshisekedi, che quindi è stato dichiarato vincitore.

Nessuno crede ai risultati, ma la maggioranza dei congolesi sembra averli accettati con rassegnazione. In molti sono stati favorevolmente colpiti dal fatto che Kabila, un despota che ha governato per 18 anni, non fosse più presidente. Nessun uomo di governo nel paese è mai stato sostituito pacificamente alle urne. La gente inoltre non ne può più dell’instabilità. Secondo le stime ufficiali, la guerra civile che ha imperversato nel paese tra il 1998 e il 2003 ha provocato tra gli 800mila e i cinque milioni di morti, la maggior parte dei quali per malattie e fame dovute alla guerra. Questa incertezza sui numeri è comune nella Repubblica Democratica del Congo. Nessuno tiene il conto dei vivi e dei morti con regolarità.

Una situazione mutevole
I termini del presunto accordo di Tshisekedi con Kabila non sono noti. Quello che è evidente, però, è che i due si stanno contendendo il potere. La coalizione di Kabila controlla due terzi dei seggi nell’assemblea nazionale e potrebbe mettere Tshisekedi in stato d’accusa. Tshisekedi potrebbe sciogliere l’assemblea e chiedere nuove elezioni. Per sei mesi non è stato possibile formare un governo a causa delle continue dispute tra i due schieramenti su chi avrebbe ottenuto quali ministeri. Il 26 luglio pare sia stato raggiunto un compromesso. Non è ancora stata resa pubblica la divisione del bottino. Secondo un analista, Kabila ha il 70 per cento del potere, Tshisekedi il 30 per cento. La situazione però potrebbe cambiare.

Tshisekedi è meno tirannico di Kabila. Ha liberato 700 prigionieri politici e tolto il bavaglio ai mezzi d’informazione. “Non temo più di essere arrestato”, afferma Georges Kapiamba, un attivista per i diritti umani. Tshisekedi afferma di voler “smantellare il sistema dittatoriale in vigore”. Ha tuttavia proibito diverse proteste.
Viaggia molto, nel tentativo di risanare i pessimi rapporti della Rdc con donatori e paesi confinanti. Il Fondo monetario internazionale sta considerando l’ipotesi di offrire dei prestiti. La Banca mondiale è disposta a dare una possibilità al nuovo regime. La Casa Bianca sostiene Tshisekedi, nella convinzione che non possa essere peggio di Kabila. Secondo Fayulu, questo “è un grave errore”.

Tshisekedi ha sospeso alcuni funzionari per cattiva amministrazione, ma Kabila e i suoi sembrano intoccabili, almeno per il momento. Tshisekedi ha nominato un nuovo consiglio di amministrazione per la Gécamines, il gigante minerario di stato gestito fin qui in pessimo modo. Il ministro dell’industria, leale a Kabila, si è rifiutato di approvare la nomina. Di fatto l’ex presidente ha avuto la meglio su quello in carica. Gli osservatori non sono meravigliati. “Deve reprimere la corruzione. Adesso. Deve mettere la gente in carcere”, dice un uomo d’affari. “Credo che quando dice di voler combattere la corruzione sia sincero. Ma non ha gli strumenti per farlo”, commenta un attivista per i diritti umani.

Bisogno di pace
Quanto agli impegni per modernizzare il paese, è stato avviato un progetto per costruire dei cavalcavia nella capitale Kinshasa (peggiorando ulteriormente la situazione del traffico, almeno per il momento). Non è molto, ma è più di quello che ha fatto Kabila. Cosa insolita per un dittatore, ha costruito pochissimo, meno di quanto sarebbe stato necessario per metterci sopra il suo nome.

Perché la Rdc possa rinascere, ha bisogno di pace e di un governo che migliori in modo tangibile le condizioni di vita delle persone. Strade migliori sarebbero di grande aiuto in un paese grande quattro volte la Francia con pochissime strade buone. Lo stesso vale per la rete elettrica: alcune città di un milione di abitanti, come Butembo, ne sono sprovviste. Tutte queste cose sarebbero più facili da realizzare se Tshisekedi riuscisse a contenere la corruzione.

Una donna si lava le mani con il cloro per prevenire la trasmissione del virus ebola, Goma, Rdc, 15 luglio 2019. (Pamela Tulizo, Afp)

La sicurezza sta migliorando. Ne è convinta Leila Zerrougui, a capo della Monusco, la missione di pace delle Nazioni Unite in Repubblica Democratica del Congo forte di 16mila unità. Le forze ribelli non controllano più città di grandi dimensioni. “I gruppi ribelli esistono ancora. Ma si nascondono”, afferma un osservatore.

La situazione però è ancora difficile. Circa tre milioni di congolesi sono stati costretti ad abbandonare le loro case. Sei province su ventisei sono focolai di rivolta. In tutte le esplosioni di violenza in Nord Kivu, Sud Kivu e Ituri sono coinvolte potenze straniere. Le milizie appoggiate dal Ruanda e dall’Uganda saccheggiano le risorse minerarie del Congo. Gli scontri nel Kasai orientale e centrale sono terminati nel 2017, ma il Tanganika è ancora in ebollizione. Decine di gruppi armati si nascondono nella foresta e depredano i civili.

Un esercito allo sbaraglio
A causa dell’ebola, la comunità internazionale è ansiosa di vedere il paese pacificato. Le Nazioni Unite sono andate oltre la consueta protezione dei civili e stanno usando le loro forze aeree per aiutare l’esercito a scacciare dalle zone colpite dal virus l’Adf, un gruppo ribelle con connessioni jihadiste. Tshisekedi ha suggerito di invitare anche l’esercito ugandese, per combattere contro l’Adf che minaccia anche l’Uganda. Un’ipotesi che incontra poco successo, avverte Zerrougui.

L’esercito congolese sarebbe più efficace se i suoi soldati ricevessero delle paghe adeguate e regolari e una vera pensione. “Non puoi chiedere alle persone di morire per la nazione se queste sanno che il loro corpo non sarà recuperato e le loro famiglie moriranno di fame per strada”, afferma un importante imprenditore straniero. L’esercito è troppo grande, anche perché continua ad assorbire ex ribelli. A migliaia si sono “arresi”, sono entrati nell’esercito e hanno continuato a saccheggiare indossando l’uniforme governativa.

Secondo molti osservatori, le cose andrebbero meglio se i ribelli che depongono le armi potessero essere dirottati verso impieghi civili o aiutati a diventare agricoltori. La maggior parte di loro “guadagna” ben poco dai saccheggi, perciò questo non sarebbe impossibile. Tuttavia i programmi del governo per formare ex combattenti non sempre sono stati gestiti bene. Alcuni, dopo aver ricevuto un kit per diventare elettricisti, sono stati mandati in villaggi senza elettricità.

Processo incerto
Una pace duratura è improbabile se gli assassini restano impuniti. Le Nazioni Unite hanno appoggiato dei tentativi per perseguire i criminali di guerra, ma il processo è incerto. La giustizia esiste per “ristabilire l’ordine” e “mettere fine all’impunità”, afferma il colonnello Hippolyte Ndaka, un pubblico ministero di Goma. Il suo obiettivo, l’ex signore della guerra Ntabo Ntaberi Cheka, è detenuto nella cella accanto. A fargli la guardia ci sono dei soldati congolesi, alcuni dei quali visibilmente ubriachi o con addosso l’odore della marijuana. Cheka è accusato di aver reclutato bambini soldato e di aver consentito ai suoi uomini di commettere degli stupri di massa. Alcuni accusavano le donne di nascondere l’oro nella vagina per avere la scusa di spogliarle e violentarle.

Scontroso e sprezzante, in tuta e infradito, Cheka nega tutto. Ha guidato una milizia per difendere la popolazione locale contro invasori stranieri e non, come alcuni insinuano, per appropriarsi delle miniere locali di oro e stagno. Chiede dove siano i testimoni disposti a provare le sue colpe. Già, dove sono? Pochi coraggiosi si sono offerti di testimoniare, con i volti coperti e le voci camuffate. La maggior parte delle sue presunte vittime tuttavia ha troppa paura. L’uomo nella cella accanto a quella di Cheka armeggia apertamente con un cellulare. Sarebbe facilissimo per il signore della guerra detenuto parlare con i suoi uomini, ancora appostati a centinaia nella boscaglia.

Per quanto oscura e caotica possa essere la situazione, la maggior parte della Rdc non è in guerra. Un imprenditore di Kinshasa dichiara che gli scontri a duemila chilometri di distanza non hanno alcun effetto sulla sua attività. “Nell’Ituri e nei due Kivu ci sono parecchi ribelli”, dice. “Una cosa schifosa. Ma ci metterebbero anni per raggiungere la sede della mia azienda”.

Il bilancio è in equilibrio (chi presterà soldi alla Rdc?). L’inflazione si attesta su modesto 11 per cento, molto meno del picco del 24.000 per cento raggiunto nel 1994. Tuttavia la crescita è debole. Il pil è aumentato del 5,8 per cento nel 2018, di cui il 4,4 per cento grazie al settore minerario. Con una popolazione che cresce del 3 per cento, “la maggioranza delle persone si impoverisce”, afferma Philippe Efoumé dell’Fmi.

Un ambiente brutale per gli affari
Durante una cena in un ristorante elegante, quattro imprenditori si scambiano racconti di sventure. Ognuno di loro è stato arrestato o aggredito. Uno è stato rinchiuso nel retro di un’auto e picchiato finché i suoi due corpulenti aggressori non si sono stancati. Tutti si lamentano delle tasse alte e delle continue “ispezioni”. Uno racconta che i funzionari cercano di estorcere denaro alla sua azienda “più o meno una volta al giorno”. “Ci sono 300 diverse tasse, hanno solo l’imbarazzo della scelta quando vogliono fare un controllo. Un ispettore delle tasse che scopre frodi fiscali percepisce il 25 per cento della multa, perciò corrompono i dipendenti affinché commettano delle malefatte”.

Per i piccoli imprenditori la situazione è ancora più difficile. Alla petite-barrière di Goma, un valico di frontiera con il Ruanda usato dai commercianti, la strada sul lato ruandese è liscia e asfaltata. Immediatamente dopo essere entrati nella Rdc, somiglia a un paesaggio lunare pieno di crateri. Carretti carichi di sacchi di cereali si spingono e si urtano in una gran confusione. Un poliziotto afferra un commerciante per la collottola, lo costringe ad aprire lo zaino e lo accusa di contrabbandare fiammiferi. Un altro commerciante ricorda a un ufficiale un precedente accordo per evadere le tasse sulle importazioni, ma viene subito zittito per la presenza di un giornalista.

Diodata Ruyumba, una commerciante, sta entrando nella Rdc con una bacinella piena di pesce salato, arachidi e cipolle in testa. Gli affari vanno male, racconta. Con il franco congolese non si compra come un tempo in Ruanda. “Se avessimo la pace potremmo coltivare più cose”, dice. “Il terreno è più fertile. Abbiamo tanta terra. Ma è troppo pericoloso coltivarla”. È fuggita dal suo villaggio dopo che il nonno è stato ucciso e un fratello è finito in ospedale per un colpo di arma da fuoco. Non ha idea di chi fossero gli assassini.

La speranza del parco
Quando lo stato è assente o inutile, si fanno avanti altre entità: è il caso delle milizie, che impongono agli abitanti del posto “tasse” in cambio di “protezione”. In altri casi sono benevole: diverse grandi aziende private sono impegnate nella costruzione delle strade. Un esempio interessante di interazione tra questo genere di attori buoni e cattivi può essere osservato nel parco nazionale dei Virunga, ottomila chilometri quadrati di foreste, aree lacustri e savana racchiusi tra tre vulcani attivi da un lato e le “montagne della Luna” dall’altro.

Da un punto di vista legale il parco è un’area protetta riservata alla fauna selvatica, compresi i gorilla di montagna che rischiano l’estinzione. Nessuno può coltivare il suo fertile terreno vulcanico, tagliare gli alberi o dare la caccia alla selvaggina. Ma tra i quattro milioni di persone che vivono a una giornata di cammino dal parco c’è chi ne coltiva la terra, brucia alberi per ricavarne carbone e caccia gli ippopotami per la carne. E le tante milizie che si nascondono nel parco offrono loro “protezione”, ossia si intascano una parte di tutto ciò che viene prodotto illegalmente nel parco. Inoltre scoraggiano i turisti.

La polizia si prepara a scortare un gruppo di operatori sanitari sul luogo di sepoltura di alcune persone morte a causa del virus ebola, Butembo, maggio 2019. (John Wessels, Afp)

I rischi per i turisti sono di minore entità, poiché li accompagnano ovunque da guardie forestali ben armate, forse le forze armate meglio addestrate del paese. Un complesso sistema di sorveglianza garantisce che i visitatori non vengano spediti in aree in cui volano i proiettili. Tuttavia dal 1996 più di 170 persone impiegate dal parco sono state uccise. L’anno scorso due trekker britannici sono stati rapiti e poi rilasciati illesi. Emmanuel de Merode, l’aristocratico belga che gestisce il parco, lo ha chiuso ai turisti per otto mesi, durante i quali ha rafforzato le misure di sicurezza.

Il parco adesso è di nuovo aperto, ma il numero di visitatori è una frazione infinitesimale di quelli che sarebbe in grado di attirare. La Repubblica Democratica del Congo è molto più grande e per molti versi più bella del Kenya, eppure il Kenya guadagna 250 volte di più con il turismo.

Per continuare a funzionare, il parco dei Virunga deve generare più introiti e ottenere un maggiore sostegno locale. Questo significa assumersi compiti che normalmente dovrebbero essere appannaggio dello stato. Poiché nessuno può fare affidamento sulla polizia, le guardie forestali proteggono gli abitanti del posto dalle milizie, scortando i convogli di veicoli attraverso il parco. Il numero di attacchi contro i civili è sceso da 144 nel 2015 agli otto dello scorso anno. Il parco dispone inoltre di posti di blocco dove i viaggiatori si lavano le mani e si misurano la febbre per individuare i possibili sintomi dell’ebola.

Tecnicamente il parco è sotto il controllo dello stato e de Merode è un funzionario statale. È tuttavia finanziato in parte da un ente benefico britannico, e de Merode ha dato vita alla Virunga alliance, un partenariato pubblico-privato per promuovere questo settore, e con gli abitanti e le aziende locali sta costruendo strade e centrali idroelettriche. Così migliaia di case hanno l’elettricità e una fabbrica può trasformare l’olio vegetale in sapone. Un’area è stata disboscata per costruire una fabbrica di cioccolato. De Merode afferma che ogni nuovo megawatt – 13 megawatt sono generati congiuntamente da due centrali – crea tra gli ottocento e i mille posti di lavoro. Alcuni vanno a ex miliziani, ma non più del dieci per cento: il parco non vuole che i giovani pensino che prendere le armi possa essere una scorciatoia per ottenere un salario.

La Virunga alliance offre inoltre consulenze legali e finanziarie alle piccole imprese. “Posso risparmiare molto da quando abbiamo l’elettricità dal parco dei Virunga”, dice Bonny Katembo, un barbiere che prima era costretto a usare un generatore. “Possiamo tenere accese le luci più a lungo, caricare gli attrezzi per le acconciature e avere così più clienti in una giornata”. Può anche alimentare una radio da cui esce musica a tutto volume. Naturalmente i problemi non mancano. I produttori di energia rivali sono spesso ostili. Ephrem Balole, amministratore delegato della Virunga energies, quest’anno è stato detenuto per tre giorni senza alcuna ragione.

Secondo de Merode, entro la fine del 2022 il parco potrebbe essere autosufficiente dal punto di vista finanziario. Fino ad allora ha bisogno di essere sostenuto da donatori, e questo potrebbe essere un problema. In quanto ente benefico britannico, la Virunga foundation riceve fondi dall’Unione europea, ma dopo la Brexit potrebbe non avere più i requisiti per accedervi.

La ricchezza mineraria del paese viene spesso esagerata. Le esportazioni minerarie annuali equivalgono ad appena un quarto di dollaro pro capite, perciò anche se dovessero raddoppiare, cosa possibile, l’Rdc continuerebbe a essere povera. Per prosperare, gli abitanti (85-100 milioni) dovranno produrre anche altro. Secondo Charles Robertson della Renaissance capital, l’industrializzazione richiederebbe un tasso di alfabetizzazione della popolazione adulta del 70-80 per cento e una fornitura di energia elettrica di 300 kilowatt pro capite. Il tasso di alfabetizzazione è abbastanza alto, ma il livello di energia elettrica pro capite è solo un terzo del necessario. Potrebbe raggiungere la soglia necessaria entro il 2030 se fossero completati i grandi progetti di dighe proposti. Robertson prevede che l’industrializzazione potrebbe spingere il tasso di crescita economica al 7-10 per cento annuo. Yves Kabongo, un investitore di Kinshasa, è più cauto. “A voler essere ottimisti, l’industrializzazione richiederà almeno una generazione”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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