“L’Etiopia è pericolosamente sull’orlo di un’altra guerra”, scrive l’Economist; “Eritrea, Etiopia e i passi falsi che potrebbero portare a una guerra”, titola New Lines Magazine. Sulla stampa internazionale si moltiplicano gli articoli e le analisi sull’instabilità nella regione del corno d’Africa e le minacce di un nuovo conflitto. Solo tre anni fa si è concluso uno scontro sanguinoso tra le forze del governo centrale dell’Etiopia e quelle regionali del Tigrai che in soli due anni (2020-2022) potrebbe aver causato 600mila morti.
La prima constatazione è che la pace portata in Tigrai dall’accordo di Pretoria del 2022 è stata un’“illusione”. “La fine delle ostilità è stata un passo importante, ma le basi dell’intesa oggi si stanno sgretolando”, scrive Mohammedawel Hagos sul sito Ethiopia Insight. Secondo l’analista etiope, non c’è stata la volontà politica di attuare l’accordo, in particolare i punti riguardanti il disarmo, il ritorno degli sfollati, la restituzione di territori, la riforma delle forze di sicurezza e la giustizia di transizione. “Circa un terzo del territorio del Tigrai resta sotto il controllo dell’Eritrea e delle forze della regione dell’Amhara, impedendo a più di 1,2 milioni di sfollati di tornare nelle loro terre. E intanto emergono nuovi conflitti per procura”.
Il 7 novembre il Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf, il partito al potere in Tigrai) ha accusato il governo del premier Abiy Ahmed di aver apertamente violato i patti lanciando attacchi con i droni contro obiettivi in Tigrai. Intanto nella vicina regione di Afar ci sono stati scontri tra le forze tigrine e milizie formate da transfughi del Tplf, ora sostenuti dal governo federale.
Se nel Tigrai tornassero a parlare le armi, la situazione sarebbe molto diversa da quella del 2020: allora il governo etiope guidato dal primo ministro Abiy Ahmed aveva trovato un alleato importante nell’Eritrea, che aveva mandato i suoi soldati a combattere in Tigrai per regolare vecchi conti con la leadership tigrina.
Oggi Eritrea ed Etiopia potrebbero ritrovarsi su fronti opposti. Le relazioni tra Abiy e il presidente eritreo Isaias Afewerki si sono deteriorate dopo che Addis Abeba si è riconciliata con il Tplf. Ma a mettere in allarme le autorità di Asmara è soprattutto l’ambizione malcelata di Abiy di ottenere un accesso al mar Rosso conquistando il porto eritreo di Assab, che dista appena 64 chilometri dal confine etiope.
L’Etiopia aveva già cercato di ottenere uno sbocco al mare, dove basare una sua forza navale, facendo un patto con il Somaliland, ma il tentativo era fallito quando nella questione sono intervenute la Somalia per protestare contro la violazione della sua sovranità territoriale e, in un secondo tempo, la Turchia per placare gli animi.
Oggi la minaccia all’Eritrea non è neanche troppo velata. Come scrive il politologo eritreo Mohammed Kheir Omer su New Lines Magazine, Abiy ama ripetere che nel destino dell’Etiopia c’è una strada che porta al mare. Messaggio ribadito dal capo delle forze armate etiopi che in un discorso pubblico ha detto: “Oggi siamo 130 milioni, tra 25 anni saremo 200 milioni, e due milioni di persone non possono ostacolare il nostro destino”. Il riferimento ai due milioni, spiega Omer, è alla popolazione eritrea, molto più esigua (anche se oggi, a dire il vero, è stimata in 3,6 milioni).
Secondo un generale etiope intervistato da Omer “sia Abiy sia Isaias vorrebbero la guerra, ma ci sono delle limitazioni a impedirglielo”. L’Etiopia ha grandi risorse militari da dispiegare, ma un nuovo conflitto potrebbe fare scoppiare insurrezioni all’interno del paese, destabilizzandolo ulteriormente. L’Eritrea non ha le stesse risorse, la coscrizione militare obbligatoria non basta a trovare nuove forze e la sua società si regge su un equilibrio precario basato sulla coercizione e la paura.
Errori da evitare
Allo stesso tempo “entrambi i leader sanno che anche il minimo errore potrebbe avere rapidamente ripercussioni all’estero. Un singolo scontro a fuoco per Assab avrebbe conseguenze sui mercati, sulle rotte commerciali e sulle importazioni di generi alimentari, da Port Sudan a Gibuti. Nel corno d’Africa la logistica è politica, e la stabilità è fondamentale”, nota Omer, secondo il quale per il momento il mero calcolo delle ricadute sta trattenendo Abiy e Isaias dal farsi la guerra.
Un altro fattore da mettere in conto, sottolinea l’Economist, è la vicina guerra in Sudan, dove tigrini ed eritrei sono alleati importanti dell’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al Burhan. Se scoppiasse una guerra tra Etiopia ed Eritrea, Asmara e il Tplf potrebbero contare sul supporto dell’esercito sudanese.
Intanto, in una situazione così esplosiva, le persone se ne vanno. Il settimanale sudafricano The Continent raccoglie la testimonianza di uno scrittore tigrino, ex funzionario pubblico, che ha lasciato Mekelle, il capoluogo tigrino. “Sono uno dei tanti”, scrive. “Centinaia di migliaia di persone stanno scappando, in particolare dal Tigrai. Nel 2024 l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha conteggiato 446mila persone che hanno lasciato il corno d’Africa passando per la rotta orientale, cioè attraversando il mar Rosso per raggiungere lo Yemen e poi l’Arabia Saudita. Per il 96 per cento erano etiopi, e per un terzo tigrini”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.
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