15 dicembre 2016 11:06

Nel 2006 all’Università del popolo di Pechino conobbi uno studente molto sveglio durante un sit-in di lavoratori immigrati – muratori all’interno del campus – che protestavano perché non erano adeguatamente pagati. Tra decine di suoi coetanei che passavano là davanti indifferenti, Zhang era l’unico che si era interessato a quanto stava accadendo e, sorridendo, sfidava le guardie che volevano impedirci di scattare fotografie. La sera cenammo insieme e io non vedevo l’ora di parlare con lui dei problemi sociali della nuova Cina, ma la prima cosa che mi chiese fu: “Cosa si dice in occidente della questione di Taiwan?”. Imbarazzo. Come spiegare che in occidente non si sa bene neanche dove stia?

La regola delle tre T è conosciuta da tutti coloro che si occupano d’informazione in Cina: Tibet, Tiananmen e Taiwan sono i tre tabù che attirano la censura. Non è che un giornalista, un blogger, un commentatore non ne possa parlarne, ma deve farlo non allontanandosi troppo dalla versione ufficiale. Per esempio, il Tibet è “parte della Cina da tempo immemore” e Tiananmen è stata “un grave disturbo politico (fino a poco tempo fa un “movimento controrivoluzionario”) che se non fosse stato represso avrebbe nuociuto alla crescita economica della Cina”.

Una sola Cina
Quanto a Taiwan, quello è il tabù di più lunga data. La definizione ufficiale è “provincia separatista”. Ufficialmente il leader dell’isola è un “governatore provinciale” (ribelle, certo). Il governo cinese negli anni ha imposto a tutti i paesi che vogliono avere relazioni diplomatiche il principio di “una sola Cina”: o Pechino o Taipei. Gradualmente la maggior parte dei paesi del mondo si è adeguata e ha chiuso le ambasciate di Taiwan per aprire quelle in Cina.

Gli Stati Uniti non fanno eccezione e mantengono le relazioni con l’ex Formosa attraverso l’American institute in Taiwan, un’organizzazione formalmente non profit e privata, mentre Taipei ha un ufficio rappresentativo “economico” e “culturale” a Washington (così come in altri paesi). La questione taiwanese è irrisolta, ma questa situazione sta bene più o meno a tutti dato che in Cina spesso una non soluzione è già una soluzione. Intanto si fanno affari.

Ora arriva Donald Trump come l’elefante nella cristalleria. Appena dopo le elezioni ha ricevuto le congratulazioni della leader taiwanese Tsai Ing-wen – che guida il partito indipendentista dell’isola – nel corso di una conversazione telefonica durante la quale Trump si è rapportato con lei come con un capo di stato, chiamandola “presidente”. Pechino ha minimizzato e ha accusato Taipei di “barare”, ma ha protestato con l’amministrazione Obama ancora in carica. Che però non controlla Trump.

Trump aveva preso di mira Pechino accusandola di dumping e di altre nefandezze che fanno perdere il lavoro agli americani

Il neoeletto presidente ha rincarato la dose dicendo di non sentirsi vincolato al principio di “una sola Cina” finché Pechino non cambierà le sue politiche commerciali. Durante la campagna elettorale, il ricco imprenditore aveva preso di mira Pechino accusandola di dumping e di altre nefandezze che fanno perdere il lavoro agli americani. Dagli Stati Uniti si dice che le pressioni del futuro inquilino della Casa Bianca nei confronti della Cina facciano parte di una strategia orchestrata dall’ex senatore Bob Dole, ora lobbista a libro paga di Taiwan. E così in Cina si prende la palla al balzo per dire che, se Trump si comporta male, è tutta colpa delle “cattive compagnie”.

Un editoriale del Global Times – la versione “pop” del Quotidiano del popolo – sostiene che Trump, nella sua inesperienza, è in balia di consiglieri conservatori che lo spingono a entrare in conflitto con Pechino. Bisognerebbe spiegargli con pazienza che il principio di “una sola Cina” non è negoziabile, scrivono sul Global Times. Insomma non si vuole rompere preventivamente con il futuro presidente statunitense. Ma in un altro editoriale lo stesso giornale afferma che se Trump continuasse a gettare benzina sul fuoco e a vendere armi a Taiwan, la Cina dovrebbe cambiare politica e fornire “assistenza militare” ai nemici di Washington.

E la vox populi? È confusa. Molti cinesi hanno fatto il tifo per Trump nella sfida con Hillary Clinton, considerata un “falco” in politica estera. Lui è un businessman, si diceva, ragionerà in termini di profitto. La filosofia win-win che il governo cinese applica nelle relazioni bilaterali deriva direttamente dal sentire profondo dei laobaixing, i cinesi qualunque: chi ci guadagna? In questo caso nessuno, è la risposta diffusa: né la Cina né Taiwan né gli Stati Uniti. E quindi, c’è più perplessità che preoccupazione. Che pessimo uomo d’affari, questo Donald Trump.

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