You Ming ha 29 anni, fa l’impiegata, lavora in uno studio grafico che offre servizi sia al governo sia alle imprese private. Un giorno di tre anni fa, un’amica le ha chiesto di accompagnarla in un’agenzia immobiliare perché voleva chiedere informazioni su un appartamento in vendita. You Ming le ha detto che avrebbe avuto tempo solo in pausa pranzo e così le due ragazze hanno fatto un salto dall’immobiliare in quell’oretta scarsa. Quando sono uscite dall’agenzia, l’appartamento l’aveva comprato You Ming.

“Sognavo di avere una casa fin da piccola”, dice oggi. “Quando l’ho comprata, da umile impiegata mi sono sentita di colpo una donna d’affari. E nel giro di tre anni, il valore della mia casa è già più che raddoppiato”.

Siamo a Taiyuan, capoluogo della provincia dello Shanxi, una città “di terzo livello”. Queste metropoli tascabili da tre-quattro milioni di abitanti sono la nuova frontiera dello sviluppo cinese. Qui, dicono le previsioni, si concentrerà il futuro aumento della popolazione, tassi del 2,5 per cento all’anno da oggi al 2030. Su queste città convergono infatti due flussi di popolazione: dalle campagne circostanti arrivano i contadini che si inurbano; dalle megalopoli come Pechino e Shanghai arrivano invece i migranti che il governo scaccia nel tentativo di decongestionarle. Per farlo, applica diversi dispositivi, dallo sgombero forzato, agli incentivi, come la concessione dell’hukou urbano – il permesso di residenza che dà accesso a servizi e diritti, per esempio la scuola per i figli – a chi compra un appartamento nelle città di terzo (e quarto) livello. Beneficio che per esempio non è concesso a Pechino.

Nel frattempo, circolano più soldi. Nel 2010, il pil pro capite nelle città di primo livello ha superato i 10mila dollari, che è la soglia oltre la quale si ritiene ci sia il salto di qualità nei consumi. Nel 2018, anche le città di terzo e quarto livello hanno raggiunto quella soglia. Taiyuan, in particolare, aveva un pil pro capite di circa 11.500 dollari nel 2017. Tra le città di terza fascia, il capoluogo dello Shanxi è particolarmente ben posizionato nel rapporto tra salari (relativamente alti) e carovita (relativamente basso, soprattutto per il ridotto costo dei trasporti) e nei servizi educativi e sanitari.

Sviluppo straordinario
Ecco dunque la fotografia di una città promettente, che di recente è riuscita perfino a mettere il tappo al problema dello smog che l’affliggeva (ovunque si vedono i taxi elettrici prodotti dalla Byd di Shenzhen).

Fino a pochi anni fa molta gente delle campagne che la circondano viveva in grotte chiamate yaodong, scavate nelle colline. Potevano essere semplici buchi nel loess (in cinese huangtu, “terra gialla”) di quell’altipiano che è la culla della civiltà cinese; oppure, nella versione più evoluta, erano rinforzate con i mattoni. Si alternavano alle tipiche case contadine a un piano che connotano tutta la Cina rurale. Oggi la città è investita da un grande sviluppo immobiliare, le campagne vengono inghiottite dalle periferie, i terreni rurali divengono urbani, le grotte vengono rase al suolo e al loro posto sorgono palazzi alti decine di piani.

Gli abitanti degli yaodong sono in genere rimborsati con un compenso in denaro e con appartamenti, grandi il doppio delle loro grotte originarie, nei complessi appena costruiti. Quindi di solito finiscono per accettare il trasferimento, anche se sorgono spesso contenziosi sul compenso e se devono aspettare del tempo per entrare nelle nuove case. La natura urbana delle abitazioni in cui finiscono garantisce loro accesso a servizi che prima non avevano – ospedali moderni, scuole di buon livello – ma spesso i neourbanizzati perdono la rete di relazioni che avevano prima e che era anche la loro base materiale di reddito. Tipico è il caso dei piccoli negozietti (xiaomaibu) che vendono un po’ di tutto in quello spazio/tempo sospeso che sono i villaggi non più rurali e non ancora urbani.

Con il trasferimento nella città-città, la loro unica fonte di reddito diventa spesso la casa stessa. Si trasformano da lavoratori a rentiers, aspettano che il valore dell’immobile salga per rivenderlo.

In Cina si sente parlare spesso di “bolla immobiliare”. Il fatto è che chiunque abbia un po’ di soldi da parte investe nel mattone. E i proprietari di case si aspettano che il valore salga costantemente. Qui, non c’entrano più le esigenze dell’urbanizzazione, il bisogno di case per viverci, ed entra in gioco invece la speculazione.

Diminuisce l’acquisto di prime case, aumenta quello di seconde e terze case. Si compra sempre di più per investire e non per abitare

In media, dal 2015, i prezzi al metro quadro sono aumentati in tutta la Cina del 30 per cento, una crescita di gran lunga superiore a quella delle economie sviluppate. Ma i salari non hanno tenuto il passo, mentre lasciare i soldi in banca ti dà interessi quasi nulli. Logico che il mattone continui a essere l’investimento privilegiato. Nei primi cinque mesi del 2018, gli investimenti in progetti di sviluppo immobiliare sono cresciuti del 14 per cento e le banche si sono gettate a capofitto nell’affare: i prestiti ai palazzinari sono aumentati del 21 per cento, la concessione di mutui del 20 per cento.

Ci sono circa cinquanta “città fantasma” in Cina. Il motivo principale per cui le case sono vuote, secondo Ubs, è che si sta restringendo la fascia di popolazione degli “acquirenti primari”, cioè i cinesi tra i 25 e i 44 anni. Mentre diminuisce l’acquisto di prime case, aumenta invece quello di seconde e terze case. Si compra sempre di più per investire e non per abitare.

I tentativi del governo per raffreddare questa bolla (per esempio introducendo in via sperimentale tasse sulla proprietà immobiliare o imponendo una caparra più alta a chi voglia comprare una seconda, terza, quarta casa) hanno provocato proteste, a volte violente. Quindi, per ragioni di stabilità politica, la casa non si tocca. Da Pechino si procede quindi in punta di piedi, per aggiustamenti e ritocchi. Quando il mercato diventa troppo incandescente e la bolla troppo gonfia, si chiude leggermente il rubinetto; quando l’economia rallenta, lo si apre di nuovo.

Di solito a questo punto arriva la domanda: ma se le case restano vuote, come fanno a salire i prezzi? Lo chiedo a Chen Wen, imprenditore che proprio a Taiyuan sta costruendo una sfilza di palazzi da più di venti piani. A lavori finiti, il complesso potrà ospitare oltre seimila persone.

Lui in realtà non sa mai se il suo progetto andrà a ruba; semplicemente ci scommette sulla base di una consapevolezza: i prezzi continueranno a salire proprio perché la gente continua a investire nell’immobiliare. Anche gli appartamenti vuoti di solito sono venduti, perché i ricchi cinesi ne comprano decine, a volte centinaia. “Il trenta per cento dei cinesi possiede il settanta per cento del patrimonio immobiliare”, spiega Chen. “L’altro giorno leggevo di una che aveva circa duecento appartamenti, non sapeva neanche lei dove”.

Zhu Ning, economista che lavora tra Shanghai, Pechino e la California, ha spiegato bene questa mentalità in China’s guaranteed bubble (2016), dove tra le altre cose si legge: “L’investitore immobiliare ormai è convinto che non perderà mai soldi se compra una nuova proprietà. Se dovesse capitare qualcosa, l’impresa edile e il governo si assumeranno la responsabilità per l’investimento irresponsabile che ha fatto lui. Tali convinzioni, alimentate dalle implicite garanzie del governo cinese e degli stessi imprenditori immobiliari, potrebbero essere le principali responsabili degli alti prezzi delle abitazioni in Cina e delle bolle speculative che si creano in molte altre aree dell’economia cinese”.

Oggi, si calcola che il 30 per cento del pil cinese dipenda dal settore immobiliare. Quindi è necessario per il governo mantenerlo in salute. Ma non solo: alcuni economisti calcolano che il mattone cinese sia la single asset class di maggiore impatto sul pil globale, di cui rappresenterebbe circa il 2-3 per cento. Un suo crollo avrebbe ricadute pesanti anche a livello internazionale.

Bisogna convincere i cinesi che conviene di più investire in una startup che in un appartamento

Paradossalmente, e contrariamente alla narrativa diffusa dai media corporate occidentali, non è quindi il governo che tiene in pugno i cinesi, bensì i cinesi che tengono in pugno il governo. Ma probabilmente è più corretto parlare di complicità: chi sono quel 30 per cento di cinesi che possiedono il 70 per cento del patrimonio immobiliare, se non gli stessi alti funzionari?

Dunque, ricapitolando, il settore immobiliare cinese è una “bolla garantita”. Immaginiamoci un esercito di lemming che si tuffano in mare, sì, ma con il salvagente. Finché il governo avrà salvagenti da offrire.

La grande transizione cinese consiste nel tentativo di stornare risorse da questa corsa dei lemming a settori più produttivi, cioè l’innovazione, le nuove tecnologie, i prodotti ad alto valore aggiunto. Per questo motivo è nato il piano “Made In China 2025”. Insomma, bisogna convincere i cinesi che conviene di più investire in una startup che in un appartamento. Appare difficile, osservando dalla Cina profonda.

Con le sue sanzioni che colpiscono soprattutto le imprese tecnologiche, Donald Trump non sta solo, nel segno dell’America First, facendo pressioni sui campioni nazionali che hanno delocalizzato in Oriente affinché tornino a produrre negli Usa. Sta anche cercando di tarpare la ali a questa transizione cinese, di mettere in crisi la superpotenza emergente. E questo, il governo di Pechino non può permetterlo.

Il presidente Xi Jinping ha così lanciato una dottrina non nuova ma riesumata per l’occasione: zili gengsheng in cinese significa “autosufficienza”, ma anche “fiducia in sé”. Xi ne ha parlato durante la visita a una grande fabbrica metalmeccanica, dicendo che “unilateralismo e protezionismo” (leggi “Trump”) impongono alla Cina di fare affidamento solo su se stessa per procacciarsi tecnologie avanzate e know-how. E questa “non è una brutta cosa”, ha aggiunto il presidente.

Ci stanno provando: la Cina quest’anno è entrata per la prima volta nella top 20 delle nazioni più innovative per The Global Innovation Index, proclama di avere circa un terzo delle startup a livello globale e in termini assoluti gravita sempre tra il primo e il secondo posto negli investimenti per ricerca&sviluppo, mentre annuncia anche di essere la numero uno per numero di brevetti depositati (molti sono totalmente inutili, ma in tutta onestà bisognerebbe sapere anche quanta carta straccia depositano gli altri paesi).

Il punto è capire se la svolta high-tech arriverà prima che la bolla scoppi; o quanto il governo potrà andare avanti a farsi garante degli investimenti immobiliari. È una corsa contro il tempo.

Chiedo al signor Chen se è vero, come si legge in giro, che la maggior parte degli imprenditori immobiliari come lui è indebitata. Mi dà di gomito e dice: “Sì, più del cento per cento di indebitamento”.

E come fate?

“Qui siamo in Cina – mi spiega – bisogna avere guanxi”, cioè relazioni. “Sposti il debito di qui e poi lo sposti di là”. In pratica, se hai le conoscenze giuste, le banche continueranno a concederti crediti anche se non li puoi ripagare. E le banche sono di stato.

Lui intanto si è costruito una casa da 800 metri quadri a Pechino, per suo uso personale. Ma gli investimenti veri li fa all’estero: Europa o Stati Uniti.

A Pechino reciti la parte del nobile Qing, oltreoceano metti i soldi in cassaforte.

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