06 aprile 2018 12:49

Qualche giorno fa un diplomatico lussemburghese che si è sempre occupato di sicurezza alimentare e ambiente mi ha detto che se la Cina volesse imporre un prezzo fisso sulla soia statunitense, per garantirsi l’approvvigionamento di quello che da queste parti è un bene primario, si rivolgerebbe al Brasile e all’Argentina. Dato l’enorme fabbisogno, si può ipotizzare che i due paesi latinoamericani comincerebbero una gara per soddisfare la domanda cinese dalle conseguenze disastrose per l’ambiente.

Un ragionamento che dà la misura di come un’eventuale guerra commerciale tra Pechino e Washington non riguarderebbe solo le due superpotenze.

Dopo aver annunciato che avrebbe reso pan per focaccia a Donald Trump e ai nuovi 50 miliardi di dazi all’anno (a quanto pare la Casa Bianca starebbe preparando un nuovo pacchetto di dazi per 100 miliardi di dollari), la Cina è passata alle vie di fatto imponendo tariffe dello stesso valore totale su 106 prodotti statunitensi, tra cui semi di soia.

Punire Trump
In Cina se ne sta parlando molto, perché la soia qui è centrale per l’alimentazione: non solo per quella della popolazione, ma anche per quella del bestiame. Se la Cina pensa di poter fare a meno delle importazioni statunitensi di questo alimento, evidentemente non è tanto perché può procurarsela altrove, ma perché il fine politico che c’è dietro la sua scelta la rende comunque vantaggiosa.

Otto dei nove stati americani che producono soia sono una roccaforte elettorale di Donald Trump e hanno scambi commerciali con la Cina per un valore di 14 miliardi all’anno. I dazi cinesi mirano chiaramente a colpire l’agricoltura statunitense: oltre alla soia, interessano anche tabacco, grano e mais. Sono tariffe che “puniscono” Trump e i suoi elettori.

Questo spiega il vantaggio che la leadership cinese ha rispetto all’amministrazione statunitense: Trump dipende dal voto, Xi Jinping no. Non che il Partito comunista cinese (Pcc) non badi al consenso, anzi, è sempre più ossessionato dal modo in cui assicurarselo. È proprio la necessità di garantirsi il consenso che sta dietro lo xiaokang, un soddisfacente livello di benessere diffuso.

In questa visione del consenso in cambio di beni materiali concorrono sia la particolare concezione del marxismo recepita e poi rielaborata dal Pcc, di fatto uno “sviluppismo”; sia la consapevolezza che nella storia cinese le dinastie sono cadute quasi sempre in concomitanza e a causa di disastri naturali, che hanno privato la popolazione dei mezzi di sostentamento: carestie, inondazioni.

Ma in Cina il consenso può essere costruito con tempi più lunghi rispetto alle scadenze elettorali delle democrazie occidentali. I cinesi hanno già colto il messaggio che arriva dall’alto: Xi Jinping rimarrà al potere anche dopo il 2022, tiriamo avanti anche se aumenteranno un po’ il prezzo della soia o della carne di maiale.

La trappola del reddito medio
Secondo un articolo del Guardian con le tariffe anticinesi l’amministrazione Trump vuole attaccare il progetto “Made in China 2025”, con cui Pechino cerca di evitare la “trappola del reddito medio” puntando sullo sviluppo tecnologico. Questa “trappola” si verifica quando un’economia non è più così povera da garantire forza lavoro a basso costo – e quindi da essere “fabbrica del mondo” – e al tempo stesso non è abbastanza evoluta da competere nel campo delle merci ad alto valore aggiunto, al punto più alto dello sviluppo capitalistico. La Cina si troverebbe lì.

Per questo la leadership cinese sta disegnando politiche specifiche che consistono nel creare un ambiente favorevole all’innovazione. Vicino a me abita un cosiddetto “cinese di ritorno”, metà cinese metà americano. È tornato in Cina per lanciare la sua startup d’intelligenza artificiale, approfittando dei finanziamenti e delle agevolazioni offerte dal governo.

Oltre all’investimento nelle startup, il progetto “Made in China 2025” prevede anche sia l’acquisto di imprese straniere all’avanguardia, sia la protezione dei propri “campioni” domestici, con quote di mercato riservate. Con le nuove tariffe Trump cerca quindi di tarpare le ali a Pechino colpendo soprattutto le imprese cinesi dell’high-tech. E Pechino contrattacca minando la sua base elettorale di redneck e ribaltando il mercato globale della soia. Ma tutto questo, a Pechino, piace pochissimo.

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