24 marzo 2020 15:58

Fino a poco tempo fa María Victoria usciva di casa al mattino con sette mazzi di chiavi nella borsa, il suo e quelli di altri sei appartamenti a Roma. Sette giorni su sette andava da una signora fino a pranzo, poi prendeva autobus, metropolitane o tram, e raggiungeva le altre case. Qualcuna era a San Lorenzo, vicino alla stazione Termini, e qualcun’altra tra San Pietro e il Gianicolo, dall’altra parte della città. In ognuna faceva le pulizie, metteva in ordine e stirava se ce n’era bisogno. Tutto questo fino a che l’epidemia di coronavirus non è peggiorata e il governo ha approvato una serie di provvedimenti per limitare gli spostamenti, vietare gli assembramenti e chiudere ogni attività non necessaria. Le persone si sono chiuse in casa, le strade si sono svuotate e lei è rimasta senza lavoro, senza ammortizzatori sociali e senza l’anonimato della folla che le permetteva di evitare di essere fermata e trovata senza documenti per restare in Italia.

Sono tante le persone nella sua situazione. Secondo le cifre ufficiali, le collaboratrici e i collaboratori domestici iscritti all’Inps sono 858mila. Secondo le stime della Cgil sono più di due milioni, in maggioranza donne, straniere e senza contratto. Su di loro si regge un lavoro che in Italia rende meno complicata la vita a milioni di famiglie, ma anche l’assistenza e la cura di tantissimi anziani, spesso malati o non autosufficienti. Eppure di loro non c’è traccia nel decreto che il governo ha emanato per affrontare le ricadute economiche dell’epidemia.

“Sono arrivata in Italia nel febbraio 2019 e ho sempre lavorato, amo il mio lavoro e le persone con cui collaboro, ma ora ho paura”, dice María Victoria, che ha preferito raccontare la sua storia usando un nome di fantasia. La donna vive con la madre e come tutti non sa come andranno le cose. Qualcuna delle persone per cui lavorava sta continuando a pagarla, qualcun’altra le ha detto che troveranno il modo di recuperare i soldi persi in queste settimane quando le cose torneranno normali, magari pagandola di più. Ma per ora, la sintesi che lei fa è questa: “Niente lavoro, niente soldi, niente permesso di soggiorno: è dura”.

Un settore trascurato
“Sono persone che aiutano milioni di famiglie italiane, ma il decreto ‘cura Italia’ le esclude espressamente”, dice Luciana Mastrocola, responsabile del lavoro domestico della Filcams-Cgil. Sul perché, è lapidaria: “Perché la coperta è corta e perché queste lavoratrici e questi lavoratori sono per lo più stranieri e dunque per loro c’è molta meno attenzione”.

Il provvedimento da 25 miliardi ha esteso la cassa integrazione in deroga a tutti, ma in uno specifico comma – il 2 dell’articolo 22 – dice che “sono esclusi i datori di lavoro domestico”. “Il sospetto è che si sia pensato di risolvere il problema nel solito modo”, ha scritto Tito Boeri su la Repubblica, “cioè puntando una volta di più sull’assistenza informale delle famiglie”. E più nello specifico delle donne, sulle quali nella maggioranza dei casi ricade questo tipo di impegno, fondamentale ma mai considerato come tale.

Quando muore la persona che assistono, molte badanti perdono anche un posto dove stare

Tutto quello che possono fare colf e badanti è sperare che resti qualcosa nel “fondo per gli esclusi dalle altre coperture” previsto dal decreto. È un fondo da 300 milioni a cui comunque, fa notare Mastrocola, insieme ad altre categorie, potrebbero accedere solo le lavoratrici e i lavoratori regolarmente iscritti all’Inps. Nel dettaglio: 456mila collaboratrici domestiche e 402mila badanti. Tra loro 640mila sono stranieri e le donne sono il 90 per cento. “Ma è una fotografia parziale”, continua la sindacalista, “questo settore è caratterizzato da una forte percentuale di lavoro nero, si stima che in totale siano due milioni di lavoratori, e con l’obbligo dell’iscrizione all’Inps tantissimi resterebbero esclusi da qualsiasi provvedimento”.

In queste settimane, il sindacato sta ricevendo segnalazioni di tante donne che hanno perso il lavoro perché assistevano anziani che sono morti. “In alcuni casi le situazioni sono davvero complicate, perché a differenza delle collaboratrici domestiche, le badanti spesso stipulano accordi che prevedono anche il vitto e l’alloggio, oltre allo stipendio. Quando muore la persona che assistono, perdono non solo i soldi, ma anche un posto dove stare. Alcune hanno provato a tornare a casa, ma con la chiusura delle frontiere la situazione rimane incerta per tante donne”.

A Perugia
Sono storie simili a quelle che Beata Zmarzla ha sentito raccontare tra le persone che fanno il suo lavoro. Zmarzla da molti anni fa la badante a Perugia e nei paesi vicini. Ha conservato il posto, ma anche per lei tutto è cambiato dopo lo scoppio dell’epidemia.

Zmarzla è nata in Polonia, ha 45 anni e vive in Italia da 23. Negli ultimi venti si è occupata di una coppia di anziani, poi i due coniugi sono morti e ora lavora a casa di una signora di novant’anni a Montebello, una frazione di Perugia. “Io vivo a Ponte San Giovanni, per arrivarci ci vorrebbero dieci minuti in macchina, ma non ce l’ho. Ho sempre preso gli autobus, che passavano spesso, ma ora molte corse sono state tagliate e aspetto anche per ore”, racconta. “Tra l’altro, sono spesso l’unica passeggera, non c’è più nessuno in giro”.

Lei gli autobus deve prenderli perché non può permettersi di restare a casa. Nelle scorse settimane l’orario le è stato ridotto. “Prima lavoravo quattro ore al giorno, dal lunedì al sabato: facevo pulizie, davo una mano alla signora a sistemarsi, preparavo il pranzo. Poi per qualche tempo la famiglia mi ha chiesto di andare solo due volte a settimana”. Gli altri giorni ha preso delle ferie, ma ora le hanno chiesto di tornare ai turni di prima perché si sono resi conto di non farcela.

Zmarzla ha un contratto regolare e vive da sola. Far quadrare i conti alla fine del mese non è semplice. “Finora ho guadagnato 740 euro netti al mese, e ne ho spesi 400 di affitto per un appartamento di 55 metri quadri e 122 per un abbonamento trimestrale ai mezzi pubblici”, dice. “Spero che quello che sta succedendo faccia capire una cosa: è facile dire aiutateci nelle nostre case e poi scaricarci quando le cose vanno male. Io pago le tasse e vorrei essere trattata come tutti gli altri, avere le tutele che hanno anche le altre lavoratrici e lavoratori”, dice.

Ad Agrigento
Per A.D.B., che preferisce parlare usando solo le iniziali del suo nome, le cose sono cambiate circa un mese fa. Nata a Salerno, 56 anni, è un’operatrice sanitaria associata (Osa) e per otto anni ha lavorato in una comunità di accoglienza per persone con disturbi psichici. Poi ha cominciato ad assistere le persone anziane ricoverate all’ospedale di Agrigento, un impegno che molte famiglie non riescono a sostenere. “Con l’inizio dell’epidemia, però, hanno vietato a tutte le operatrici e gli operatori come me di entrare, anche giustamente, e così per un po’ sono rimasta senza lavoro”.

L’ultima persona di cui si è presa cura era in ortopedia, e proprio in ospedale ha conosciuto chi le ha fatto avere un mese di prova, dal 23 marzo, a casa di una coppia di novantenni ad Agrigento. “Siamo in tre a occuparci di loro. Io lavoro tutti i pomeriggi, fino alle nove di sera, e poi anche la notte di sabato e tutta la domenica. Se il mese di prova va bene, lavorerò anche tutti i giorni festivi”.

A.D.B. se lo augura, perché ha paura che le alternative in futuro non saranno molte. “Che dovevo fare, purtroppo la situazione è questa. Anche se mi avessero lasciato andare in ospedale, non sarei andata, perché un po’ di paura comunque ce l’ho”, spiega. E così ogni giorno alle 14 prende l’auto e va a casa della coppia, indossa guanti e mascherine – “Sono cauta sia per me sia per loro”, dice, “perché sono molto fragili” – e comincia il suo turno. Lo scorso weekend, per una serie di incastri con gli altri assistenti, ha lavorato da venerdì pomeriggio a domenica sera.

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