14 febbraio 2020 13:15

Questo articolo è uscito il 15 marzo 2019 nel numero 1298 di Internazionale. L’originale era stato pubblicato sul settimanale svizzero Das Magazin con il titolo Die Finkelstein formel.

L’anticristo, l’uomo più pericoloso del mondo. Un vecchio miliardario, uno speculatore che ha fatto crollare la sterlina britannica nel 1992, che ha scatenato la crisi asiatica del 1997 e quella finanziaria del 2008. Ha distrutto prima l’Unione Sovietica e poi la Jugoslavia, aprendo la strada all’invasione di arabi e africani perché potessero cacciare gli europei. Sponsorizza gli estremisti di sinistra, vuole far cadere il presidente degli Stati Uniti e guadagna con il traffico di droga e i reati finanziari. Tra l’altro finanzia l’eutanasia, la censura e il terrorismo. È ebreo, ma da bambino consegnava altri ebrei ai nazisti.

Sono tutte informazioni reperibili su Facebook, YouTube e Twitter quando si digita “Soros”. Che George Soros sia ebreo è vero, tutto il resto è falso ed è stato inventato e diffuso durante una delle campagne politiche più velenose ed efficaci di tutti i tempi. Fino a qualche anno fa Soros era un miliardario la cui critica al capitalismo era tenuta in considerazione perfino al Forum economico mondiale di Davos. Un finanziere che una volta faceva parte delle trenta persone più ricche del mondo, ma che poi ha devoluto buona parte dei suoi miliardi alla Open society foundations, una rete di fondazioni, al terzo posto nella classifica mondiale delle organizzazioni a scopo benefico, subito dopo quella di Bill e Melinda Gates. Ma mentre Bill Gates, il fondatore della Microsoft, cerca di alleviare le sofferenze del mondo, per esempio estirpando la malaria, Soros cerca di migliorarlo con iniziative a sostegno dei migranti. Vuole realizzare l’ideale che il suo filosofo preferito, Karl Popper, contrapponeva al totalitarismo: una società aperta.

Nel suo ufficio newyorchese, al trentottesimo piano di una torre di vetro piena di spigoli, Michael Vachon, portavoce di Soros, si chiede come sia potuto succedere che il suo capo, uno stimato filantropo, sia diventato una delle persone più odiate al mondo. Nel 2017 Vachon ha cominciato la cosiddetta “analisi del sentimento” per cogliere le dimensioni del problema. Sul suo computer si staglia una curva arancione che rappresenta le reazioni in rete al nome Soros: il finanziere è citato decine di migliaia di volte alla settimana, e in alcune settimane si tratta quasi solo di citazioni negative. È il grafico della febbre dell’odio.

Solo due persone conoscono la risposta alla domanda di Vachon. Una è morta e l’altra, in una soleggiata mattina di agosto del 2018, si trova davanti a un abbondante buffet nel Westin Grand Hotel di Berlino. È un uomo con un fisico da maratoneta: alto, magro, col cranio e il viso perfettamente rasati e un paio d’occhiali tartarugati che incorniciano due penetranti occhi azzurri. George Eli Birnbaum è nato a Los Angeles nel 1970 e si chiama come suo nonno, fucilato dai nazisti davanti agli occhi del figlio, che scampò all’olocausto fuggendo negli Stati Uniti. Ma l’antisemitismo seguì la famiglia fino ad Atlanta, dove il giovane George è cresciuto. La scuola privata ebraica che frequentava era imbrattata di continuo con scritte antisemite. Ogni fine settimana il padre gli dava il Jerusalem Post. “Preoccupati prima degli ebrei, poi del resto del mondo”, gli diceva. E pian piano George Birnbaum si convinse che solo uno stato forte, Israele, avrebbe potuto proteggere gli ebrei da un nuovo olocausto. Parlare di questa storia gli riesce difficile ed è la prima volta che rilascia dichiarazioni a un giornalista. Ma il contributo di Birnbaum è stato decisivo per il rafforzamento della nuova destra in tutto il mondo e per il ritorno dell’antisemitismo come arma politica. Tutto questo è successo mettendo alla gogna un ebreo: George Soros.

Il candidato
Questa storia è cominciata più di ventitré anni fa, il 4 novembre 1995, con l’attentato al primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, il leader politico che più di ogni altro aveva dato speranze di pace a Israele. Dopo l’attentato furono rapidamente indette nuove elezioni. I candidati erano Shimon Peres, un socialdemocratico della generazione dei padri fondatori, che voleva portare avanti il processo di pace avviato da Rabin, e Benjamin Netanyahu, detto Bibi, consulente aziendale, principiante della politica e uomo di destra. In molti sorrisero delle ambizioni di Netanyahu. Nei sondaggi arrancava dietro Peres con più di venti punti percentuali di distacco.

All’improvviso però il partito di Neta­nyahu, il Likud, cominciò a bombardare il paese con cupi slogan elettorali come “Peres dividerà Gerusalemme”, che spaventavano gli elettori, anche se Peres non aveva alcuna intenzione di dividere Gerusalemme. Il giorno delle elezioni i due candidati erano testa a testa. Intorno alle 22 le tv annunciarono che, secondo le prime proiezioni, Peres avrebbe vinto di misura. A quel punto Netanyahu chiamò Arthur Finkelstein, il direttore della sua campagna elettorale. Finkelstein, a New York, si precipitò alla cornetta. “Non preoccuparti”, disse a Netanyahu. “Io i testa a testa li vinco sempre”. Netanyahu vinse di misura.

“Arthur Finkelstein era un genio”, dice Birnbaum. Era un uomo dei numeri, un cosiddetto pollster, un consulente che sviluppa tattiche e strategie per i clienti sulla base dei sondaggi. Analizza opinioni, stati d’animo, elementi unificanti o divisivi nella popolazione in modo che i clienti possano sfruttarli a proprio vantaggio.

A volte i pollster progettano anche le campagne elettorali. Nel caso di Israele Finkelstein aveva progettato perfino un candidato: Netanyahu era una sua creazione. “Arthur stabilì tutto quello che Bibi fece durante la campagna elettorale”, scrivono Ben Kaspit e Ilan Kfir, biografi di Netanyahu.

Finkelstein era un uomo discreto. In rete si trovano solo due dei suoi discorsi in pubblico. Nessuno riusciva a capirlo del tutto, neanche i suoi clienti. Arrivava, dava consigli e spariva. Il giorno delle elezioni non era mai presente. Sul posto lasciava i suoi collaboratori, che si definivano gli Arthur’s kids, i “ragazzi di Arthur”. Ho messo insieme le informazioni su Finkelstein, raccogliendo indizi sulla stampa israeliana e ungherese e citazioni nei documenti ufficiali. E per colmare le lacune ho incontrato più di una decina di persone, tra cui George Birnbaum.

Budapest, Ungheria, 2019. Manifesti contro Soros e l’Unione europea a una fermata d’autobus. (Laszlo Balogh, Getty images)

Finkelstein è il filo rosso nella storia recente dei repubblicani, da Ayn Rand passando per Richard Nixon fino a Donald Trump. Al college conobbe Rand, la madre del libertarianismo. Più avanti aiutò il leggendario Barry Goldwater, che a metà degli anni sessanta reinventò i repubblicani da destra. Finkelstein sopravvisse allo scandalo Watergate e nel 1980 contribuì alla vittoria di Ronald Reagan. Poi collaborò con George Bush senior e anche con un imprenditore di nome Donald Trump, a cui predisse addirittura una carriera in politica. Il team della campagna elettorale di Trump era pieno di ragazzi di Arthur: da Larry Weitzner a Tony Fabrizio fino al vecchio amico di Finkelstein, Roger Stone. Anche Richard Grenell, ambasciatore statunitense a Berlino, aveva rapporti con Finkelstein, così come David B. Cornstein, l’ambasciatore statunitense in Ungheria. Il collegamento tra Finkelstein e la comunicazione repubblicana recente si potrebbe spiegare così: quando Finkelstein era la chiave di volta della campagna elettorale di Ronald Reagan, quest’ultimo cominciò a usare lo slogan stranamente cupo e profondamente reazionario che oggi tutti conoscono: “Let’s make America great again”.

Finkelstein seguiva una formula che adattava a ogni contesto: ilnegative campaigning. È un tipo di campagna elettorale in cui si preferisce attaccare un avversario invece di difendere il proprio programma. Finkelstein partiva dal presupposto che le elezioni si decidono sempre in anticipo. La maggior parte delle persone sa bene per chi voterà: è a favore di alcune cose, contraria ad altre e difficilmente cambia idea. In parole povere, scoraggiare le persone è molto più facile che motivarle. È così che si possono far perdere voti all’avversario. Oggi si parla di voter suppression, eliminazione degli elettori. Brad Parscale, che ha gestito la campagna digitale di Trump, l’ha definita uno degli strumenti più importanti delle presidenziali statunitensi del 2016. Il metodo è una sorta di moderno manuale d’istruzioni del populismo di destra.

Finkelstein, che in origine faceva il programmatore nel campo della finanza, nel suo lavoro di sondaggista registrava dati sulla popolazione: età, residenza, candidato preferito, convinzioni politiche, numero di presenze in chiesa. Il suo talento consisteva nel sapere individuare i “temi centrali”, quelli che suscitano maggiore interesse, e quelli che fanno più male all’avversario. Presto si rese conto che spesso coincidevano. “Droga, criminalità e colore della pelle”: erano i temi che nel 1972 indicò in un documento per Richard Nixon. Il suo obiettivo era polarizzare al massimo l’elettorato, mettere gli elettori gli uni contro gli altri. La paura faceva da carburante. “Bisogna fingere che il pericolo venga da sinistra”, consigliò a Nixon, che avrebbe dovuto portare alla ribalta temi capaci di spaventare la popolazione.

Ma, soprattutto, pensava che attaccare fosse un obbligo. Chi non colpisce per primo finirà per essere colpito. Finkelstein la metteva sul personale: in ogni campagna elettorale dev’esserci un nemico da sconfiggere. Trasformò il negative campaigning in una tecnica che chiamò rejectionist voting. L’idea era questa: la cosa più importante non è evidenziare i pregi del proprio candidato, ma proiettare ogni possibile elemento negativo sull’avversario, distruggendo la fiducia degli elettori. Finkelstein non aveva peli sullo stomaco.

L’ultimo passo del metodo era tendere una trappola all’avversario: Finkelstein metteva in giro una notizia falsa, contando sul fatto che l’avversario si sarebbe incastrato da solo cercando di smentirla. Infatti reagendo all’accusa l’avrebbe inevitabilmente legata al suo nome, mentre ignorandola non avrebbe avuto modo di confutarla. Nel migliore dei casi poi la falsa notizia sarebbe stata di per sé così strana o sconvolgente da essere ripresa dai mezzi d’informazione.

Finkelstein diventò famoso per aver trasformato il termine liberal in un insulto. Chiamava gli avversari ultraliberal, “terribilmente liberal” o “imbarazzantemente liberal”. Mark Mellman, il grande esperto elettorale dei democratici statunitensi, afferma: “Bollare qualcuno come liberal, farne un insulto e ripeterlo all’infinito era un metodo semplice ma efficace. Probabilmente nessuno ha mai fatto eleggere al congresso degli Stati Uniti più politici di Finkelstein”.

Verso l’Europa
Nel 1996 in Israele Finkelstein applicò la ricetta nella sua totalità, sparando a zero su Peres da tutti i fronti. I suoi slogan duri e concisi arrivarono sui mezzi d’informazione. Nell’ultimo talk show prima del voto Peres cadde in trappola: chiarì immediatamente di non avere alcuna intenzione di dividere Gerusalemme. A quel punto Netanyahu l’aveva in pugno e al suo risveglio, il giorno dopo le elezioni, Peres se lo ritrovò primo ministro col 50,5 per cento dei voti.

Finkelstein aveva ottenuto il lavoro in Israele grazie all’amico e cliente Ron Lauder, erede miliardario dell’impero dei cosmetici e all’epoca finanziatore di Netanyahu. All’inizio era un’occupazione secondaria: il primo lavoro di Finkelstein era la campagna contro la rielezione di Bill Clinton. Ma in Israele Finkelstein scoprì che la sua formula funzionava anche fuori dagli Stati Uniti. Dopo la vittoria di Netanyahu, tutti i partiti puntarono sul negative campaigning e Finkelstein fu molto richiesto.

C’era lui dietro la sorprendente vittoria di Ariel Sharon nel 2001, e con Avigdor Lieberman trovò un cliente ancora più a destra. I trionfi israeliani inaugurarono una fase nuova: Finkelstein rivolse la sua attenzione all’Europa. Per questo avviò una collaborazione con George Eli Birnbaum. I due formarono una squadra che più avanti diede vita all’eredità più longeva di Finkelstein: il suo mostro. Birnbaum racconta di aver conosciuto la mente occulta dei repubblicani alla metà degli anni novanta a Washington. Allora era un ragazzo e ogni mattina portava a Finkelstein pile di sondaggi. “Tutto quello che Arthur faceva si basava sui numeri”, ricorda Birnbaum, “ma nessuno riusciva a ricavarne quello che ne ricavava lui”. Per il mondo esterno Finkelstein, lo stratega della destra, era un enigma. Ma Birnbaum ci mise poco per imparare a conoscerlo. Era un uomo gentile, scaltro, brillante ma comunque umile, pieno di aneddoti sulle cerchie più interne del potere. Rampollo di una famiglia ebraica del Queens, si prendeva gioco delle prescrizioni kasher. Un nerd, con il taschino della camicia pieno di penne e bigliettini per prendere appunti.

Nell’ingessato mondo della politica Finkelstein portava sempre la cravatta allentata e si aggirava per l’ufficio senza scarpe. Poteva permettersi qualsiasi cosa perché era l’emisfero destro della destra. Raccontò a un collaboratore che una volta il capo di gabinetto di Reagan lo ringraziò per iscritto per essersi presentato nello Studio ovale “indossando le scarpe per quasi tutto il tempo”. Come disse agli studenti di Praga, la sua passione erano le campagne elettorali, che gli ricordavano una spiaggia sabbiosa: a prima vista è sempre uguale, ma in realtà cambia di continuo. Basta un’onda o una tempesta perché tutto si trasformi. Il suo amore più profondo però andava alle sue due figlie, e al suo compagno. Arthur Finkelstein, l’uomo che aiutava i repubblicani radicali e omofobi a scalare il potere, era omosessuale. L’amore della sua vita si chiamava Donald.

Il capitano e il timoniere
Nel 1998 Finkelstein chiese a Birnbaum di lavorare per il Likud in Israele. A Birn­baum sembrò di realizzare un sogno. Anche se la rielezione di Netanyahu non sarebbe poi andata in porto, i due diventarono una squadra: Finkelstein capitano e Birnbaum timoniere. Mentre Finkelstein faceva avanti e indietro da New York, Birn­baum teneva la posizione in Israele, dove presto diventò una sorta di assistente personale di Netanyahu, organizzando le sue apparizioni in pubblico, facendo da portavoce con la stampa e a volte perfino da babysitter ai figli.

Nel 2006 Birnbaum fondò insieme a Finkelstein la Geb International, l’azienda con cui sarebbero andati all’assalto dell’Europa orientale. Birnbaum cercava i clienti a cui vendere la formula Finkelstein. In Romania portarono al potere Calin Popescu-Tariceanu, in Bulgaria Sergei Stanishev. Nel 2008 in Ungheria c’era un uomo che voleva tornare al potere: l’ex premier Viktor Orbán. L’avrebbe aiutato Netanyahu, legato a lui da una vecchia amicizia. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz fu Netanyahu a mettere in contatto Orbán con Finkelstein e Birnbaum. Tutto cominciò con una vittoria referendaria, ricorda Birnbaum: nel 2008 Orbán e il suo partito, il Fidesz, erano lanciatissimi verso le elezioni politiche del 2010.

Se Finkelstein è un artista, l’Ungheria è il suo capolavoro. Secondo Birnbaum, all’inizio furono assunti ufficialmente per un anno da Századvég (fine secolo), una fondazione vicina al Fidesz. Per le elezioni del 2010 puntavano sulla classica ricetta Finkelstein: concentrarsi sulle debolezze degli avversari, tenendo il proprio candidato lontano dai riflettori. Quindi travolsero il governo socialista con attacchi a tutto campo. Ancora oggi Birnbaum ripensa con stupore alla facilità dell’impresa: “Nel 2010 sbaragliammo i socialisti ancora prima delle elezioni”. Ma presto saltarono fuori dei nuovi avversari: l’Ungheria soffriva sotto i colpi della crisi e per salvarsi aveva bisogno di un’iniezione di capitali. In cambio del credito, la Banca mondiale, l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale imposero l’austerità. Così i due statunitensi consigliarono a Orbán di scegliersi come nemici i burocrati e il grande capitale straniero. Il paese si spostava a destra, a tutto vantaggio del Fidesz, e Orbán vinse le elezioni con una maggioranza di due terzi.

Birnbaum e Finkelstein, ormai entrati nella cerchia più stretta di Orbán, avevano un problema. Mentre il vincitore soddisfatto si apprestava a riscrivere la costituzione, loro due faticavano a trovargli un nuovo nemico. “Non c’era più nessuna opposizione”, racconta Birnbaum. Sconfitti il partito di estrema destra Jobbik e i socialisti, restavano solo dei piccoli gruppi frammentati. “Avevamo un presidente con una maggioranza mai vista prima in Ungheria”. E per mantenerla serviva un elevato livello d’energia. “La base dev’essere sempre carica, bisogna darle una ragione per uscire di casa e andare ancora a votare”. Serviva qualcosa di forte, come lo slogan di Trump: “Build the wall!”, costruiamo il muro con il Messico.

La formula Finkelstein ha bisogno di un nemico per far funzionare la campagna elettorale. “È il metodo migliore per compattare le truppe”, spiega Birnbaum. “Arthur diceva sempre che non si combattono i nazisti, si combatte Hitler. Non si combatte Al Qaeda, si combatte Osama bin Laden”. Ma chi poteva ricoprire un ruolo simile in Ungheria? Dove si nascondeva il drago sputafuoco a cui muovere battaglia? Contro chi Orbán avrebbe potuto chiamare il popolo alle armi?

La vittima innocente
Il premier ungherese stava costruendo una narrazione diversa e più drammatica del paese. Gli dava una mano Mária Schmidt, una storica che Orbán aveva nominato direttrice del memoriale nazionale per le vittime delle dittature nel 2002, all’epoca del suo primo governo. Una donna combattiva e anche una ricca ereditiera. Schmidt presentava l’Ungheria – che era scesa a patti con Hitler – come una vittima innocente, la custode perseverante e coraggiosa della propria identità, una nazione perennemente sotto assedio, prima da parte degli ottomani, poi dei nazisti e infine dei comunisti. La sua missione era sempre stata quella di respingere le minacce esterne e difendere la cristianità. Fu tutto questo che diede a Finkelstein l’ispirazione di cui aveva bisogno. E la sua idea fu così diabolica da sopravvivergli.

In fondo si trattava di portare avanti la narrazione del grande capitale straniero che complotta contro la piccola Ungheria. Ma con un crescendo drammatico: all’improvviso si alzava il sipario dietro il quale si cela il complotto e compariva il personaggio che ne teneva in mano le fila, non limitandosi a dirigerlo ma addirittura incarnandolo. Era un uomo in carne e ossa, nato in Ungheria: estraneo e allo stesso tempo conosciuto. Era George Soros, disse Finkelstein. Birnbaum riconobbe subito la genialità dell’idea: “Era l’avversario perfetto”.

Il mostro Soros nacque così. Un multimiliardario potentissimo e con agganci in ogni angolo del pianeta: per sconfiggerlo era necessario che l’intera nazione si radunasse dietro a Orbán. In Ungheria si creò un personaggio odioso che presto sarebbe stato ripreso dai politici di tutto il mondo. All’inizio la proposta di Finkelstein sembrò assurda. Non si poteva fare campagna elettorale contro qualcuno che non era un politico e che neanche viveva in Ungheria, contro un anziano conosciuto in tutto il paese come un mecenate e un benefattore, qualcuno che prima del crollo della cortina di ferro sosteneva l’opposizione anticomunista e dopo aveva fornito pasti gratuiti ai bambini delle scuole, l’uomo che aveva fondato una delle migliori università dell’Europa orientale, la Central european university (Ceu), nel centro di Budapest. Lo stesso Orbán aveva preso soldi da Soros: quando era all’opposizione, le riviste pubblicate dalla sua piccola fondazione clandestina, Századvég, erano stampate con una fotocopiatrice comprata con i soldi di Soros.

Inoltre Orbán era stato uno dei quindicimila borsisti della Open society foundations. È stato grazie a Soros che Orbán ha potuto studiare filosofia a Oxford. I due si sono incontrati una sola volta, nel 2010, quando Soros andò in Ungheria dopo un’inondazione per donare un milione di dollari di aiuti. Quindi non c’era davvero alcun motivo di avercela con lui.

Una lunga storia
Quando Finkelstein e Birnbaum pensavano a George Soros, però, vedevano tutt’altro. Le critiche a Soros hanno una lunga storia, che si può ripercorrere a ritroso fino al 1992, quando un’operazione finanziaria gli fece guadagnare un miliardo di dollari in una sola notte a spese dei cittadini britannici. Molti esponenti della sinistra lo consideravano un parassita. Ma poi ha sfruttato la sua notorietà per diffondere idee liberal. Soros rappresenta tutto ciò a cui la destra si oppone: la lotta al cambiamento climatico, la ridistribuzione della ricchezza, i Clinton. Nel 2003 si è opposto alla seconda guerra in Iraq, paragonando George W. Bush ai nazisti, e ha cominciato a finanziare con somme enormi i democratici. Così si è trasformato nello spauracchio dei repubblicani. Ma c’è di più. Finkelstein e Birn­baum avevano esteso il loro raggio d’azione proprio a quei paesi in cui la Open society tentava con particolare impegno di sostenere la formazione di élite liberali locali e movimenti per i diritti civili: Ucraina, Romania, Repubblica Ceca, Macedonia, Albania. Birnbaum, esponente silenzioso della destra, non ama Soros: secondo lui rappresenta “un socialismo inadatto a questi posti”. Finkelstein invece, almeno secondo Birnbaum, aveva una visione “puramente razionale” della questione: fare di Soros il nemico era solo un mezzo per raggiungere un fine. Per scoprire se la sua notorietà in Ungheria era davvero tale da poter far funzionare il piano, organizzò dei sondaggi telefonici in cui si confrontava il nome di Soros con quelli di una serie di altri possibili avversari, mi ha raccontato una persona che ha collaborato ai sondaggi. Birnbaum, però, non ha confermato che nel caso Soros siano stati fatti.

A questo punto bisognava convincere Orbán, che secondo Birnbaum aveva una “enorme fiducia” in Finkelstein. I portavoce di Orbán hanno rifiutato di rilasciare dichiarazioni in proposito. “Per la politica di Orbán nessuno è stato più importante di Finkelstein”, conferma un ex sondaggista ungherese del Fidesz. “E Finkelstein non ha mai avuto un allievo migliore”.

Budapest, Ungheria, gennaio 2019. La Central european university. (Chris McGrath, Getty Images)

Per Orbán la campagna contro Soros aveva senso non solo per la politica interna, ma anche per quella estera. Avrebbe fatto sicuramente piacere alla vicina Russia. Il presidente russo Vladimir Putin temeva le cosiddette rivoluzioni colorate, come le primavere arabe o la rivoluzione ucraina, e stava cominciando a muoversi contro Soros, che sosteneva le forze liberali. Niente unisce più di un nemico comune. Sul piano interno la campagna piaceva a Mária Schmidt, convinta che ci fosse Soros dietro le critiche che i democratici statunitensi muovevano alla sua patriottica favoletta revisionista. Di recente Schmidt ha raccontato a una giornalista statunitense di aver avuto la rivelazione nel 2008, grazie al programma tv satirico statunitense “Saturday night live”, che presentava un imitatore di Soros chiamandolo “George Soros, padrone del Partito democratico”.

Da parte di Soros non è mai arrivata alcuna smentita. E per Schmidt era evidente che le cose stessero così. Si è sempre discusso molto della collaborazione di Finkelstein e Birnbaum con Orbán. In Ungheria Finkelstein è quasi un personaggio mitologico. Orbán però non si è mai espresso chiaramente sul suo ruolo. Birnbaum è stato il primo, tra i personaggi coinvolti nella vicenda, ad accettare di parlarne, ma sono molte le questioni che non ha voluto toccare. Non ha rivelato i dettagli della collaborazione: inventavano gli slogan o si limitavano alle idee guida? Gestivano direttamente la campagna elettorale? Comunque quello che è successo in Ungheria negli anni successivi è sotto gli occhi di tutti, come le conseguenze a livello mondiale. In effetti era bastato mettere insieme tutti gli argomenti e le misure contro Soros che arrivavano da est e da ovest, da destra e da sinistra, per avere la campagna bella e fatta. L’unica vera novità è stata quella di inserire Soros nella campagna elettorale come principale avversario.

Il primo colpo partì il 14 agosto 2013, nove mesi prima delle elezioni. Il giornale filogovernativo Heti Válasz pubblicò un attacco ad alcune ong accusate di essere controllate da Soros. Per la prima volta fu ventilata l’idea di un complotto orchestrato da Soros ai danni dell’Ungheria. Seguì un attacco dell’apparato statale ungherese contro l’organizzazione ambientalista Ökotárs, anch’essa teoricamente sotto il controllo di Soros, che riceveva fondi per lo sviluppo dalla Norvegia e anche dalla Deza, l’agenzia di cooperazione internazionale svizzera. La polizia irruppe negli uffici dei presunti lacchè di Soros confiscandone i computer. Partirono indagini e processi contro Ökotárs, che durarono mesi. I finanziamenti svizzeri furono interrotti. Le indagini non portarono a nulla, ma passò l’idea che tutte le ong facevano parte di una rete pericolosa. Poi arrivarono la guerra in Siria e la cosiddetta crisi dei migranti: crebbe a dismisura il numero di persone che arrivavano in Europa in cerca di rifugio. Mentre Finkelstein orchestrava in fretta e furia una campagna contro i migranti, Soros, in un articolo uscito nell’autunno del 2015, chiese “un piano comunitario” per la gestione dei migranti. Sosteneva che l’Unione europea doveva prepararsi “in tempi brevi a un milione di arrivi all’anno”. Per Orbán fu un invito a nozze.

Pochi giorni dopo che il governo ungherese era stato costretto ad abbandonare la battaglia contro Ökotárs, in un discorso Orbán definì Soros “il rappresentante” di quel pensiero occidentale che mirava a “indebolire lo stato nazione” attraverso l’invasione dei migranti. Per la prima volta il sostegno di Soros ai migranti fu riformulato come parte di un complotto più grande. Dalla fine del 2015 gli attacchi si susseguirono a ritmo incalzante. Ogni organizzazione che abbia mai ricevuto fondi dalla Open society era “sotto il controllo di Soros”. I collaboratori delle ong erano “mercenari” pagati dagli stranieri.

Tutto avvenne grazie a un raffinato gioco di squadra, in cui si alternavano presunti articoli d’inchiesta sensazionalistici e reazioni ufficiali degli esponenti di governo. La campagna diffamatoria si faceva sempre più sfacciata. L’Ungheria copiò la mossa di Putin, che aveva tolto la licenza a un’università di San Pietroburgo cofinanziata da Soros. Nel febbraio 2017 cominciarono gli attacchi alla Central european university, diretta da Michael Ignatieff, uno stimato storico canadese che nel suo paese si era candidato contro il Partito conservatore, per il quale lavorava Finkelstein.

Un primo picco della campagna contro Soros fu raggiunto nel luglio del 2017 quando l’Ungheria si riempì di manifesti che mostravano il volto del finanziere. Sotto si leggeva: “Non permettere che sia Soros a ridere per ultimo!”. Si sentiva di continuo lo slogan “Stop Soros” e circolavano fotomontaggi che lo ritraevano a braccetto con presunti alleati mentre attraversavano una rete squarciata: la recinzione che Orbán aveva costruito per tenere i migranti fuori dall’Ungheria. Orbán sosteneva che Soros finanziava una rete mafiosa. Nell’autunno del 2017 il governo indisse una “consultazione nazionale”. Migliaia di cittadini ricevettero un questionario per dichiararsi a favore o contro il “piano di Soros”, cioè ricollocare in Europa un milione di africani e mediorientali all’anno.

La cifra che l’Open society aveva investito in Ungheria nel 2016 ammontava a circa 3,6 milioni di dollari. La campagna contro Soros del 2017 è costata 40 milioni di euro. Ed è stata efficace: la popolarità di Soros è calata drasticamente e un intero paese gli si è rivoltato contro. Soros era l’incarnazione del male. Ormai era in trappola: “Replicando alle accuse avrebbe solo confermato la nostra tesi, cioè che s’intrometteva nella politica ungherese”, dice Birnbaum. Candidarsi contro Orbán era altrettanto impensabile per un uomo di 87 anni. “Soros non è un politico”, dice Vachon.

Finkelstein aveva trovato in lui l’avversario ideale. Un Mister Liberal come l’aveva sempre sognato, l’incarnazione di tutte le contraddizioni che i conservatori odiano in quegli esponenti della sinistra che hanno successo economico: uno speculatore finanziario che allo stesso tempo chiede un capitalismo più umano. E la cosa più bella è che l’obiettivo della campagna elettorale non era un esponente politico e neanche una persona che viveva nel paese. “L’avversario perfetto è quello che puoi colpire continuamente senza che lui possa colpirti mai”, sottolinea Birnbaum. Ancora oggi si entusiasma. “Era così ovvio, il prodotto più facile di tutti, bastava impacchettarlo e piazzarlo”.

Il “prodotto” è così buono che si piazza da solo e finisce per fare il giro del mondo. Nel 2017 in Italia si parlava di carrette del mare finanziate da Soros. Nel 2018 negli Stati Uniti si ipotizzava che dietro alla “carovana” dei migranti in Messico ci fosse Soros. Matteo Salvini, in Italia, ha accusato i suoi avversari di essere pagati da Soros, e lo stesso hanno fatto Nigel Farage al parlamento europeo e i tedeschi Stephan Brandner e Jörg Meuthen, del partito populista di estrema destra Alternative für Deutschland.

Dalla Colombia a Israele, dal Kenya all’Australia si registrano attacchi a Soros. Un parlamentare polacco l’ha definito “l’uomo più pericoloso del mondo”. Putin l’ha criticato durante una conferenza stampa con Trump a Helsinki. A sua volta Trump l’ha infilato nel suo ultimo spot prima delle elezioni del 2016. E di recente ha sostenuto che ci fosse il solito Soros dietro le manifestazioni contro il suo candidato alla corte suprema, Brett Kavanaugh.

L’Ungheria è stata la testa di ponte di un’operazione retorica tutta giocata fra Trump e Putin. In Austria il nome di Soros ha fatto la sua comparsa in campagna elettorale durante “l’affaire Silberstein” (dal nome del consulente politico Tal Silberstein, che durante la campagna per le elezioni politiche del 2017 avrebbe organizzato un’azione di negative campaigning contro il candidato conservatore Sebastian Kurz): alla fine è venuto fuori l’uso di falsi account Facebook che citavano il “piano” di Soros. E nel team della campagna elettorale c’erano di nuovo loro, Birnbaum e Finkelstein.

Il ritorno dell’ebreo cattivo
Birnbaum si difende dall’accusa di aver condotto altre campagne contro Soros fuori dall’Ungheria. Ma forse non ce n’era bisogno. In Ungheria lui e Finkelstein hanno creato il nemico più efficace che la destra contemporanea abbia mai avuto, oltretutto perfetto per la rete. Infatti se i siti d’informazione di destra (Breitbart e Russia Today per esempio) hanno ripreso la campagna ungherese, traducendola in altre lingue e nutrendola di nuovi argomenti, i social network hanno trasformato il malvagio Soros in un meme che ormai vive di vita propria. Se oggi un movimento di destra vuole costruire una campagna elettorale, basta che attinga al materiale su Soros che circola in rete. Soros è un’arma open source, gratuita, globalizzata e adattabile. Birn­baum la chiama “il minimo comun denominatore dei movimenti nazionalisti”. Non a caso Steve Bannon incitava alla lotta contro Soros quando voleva entrare a gamba tesa nella campagna elettorale europea.

A questo punto bisogna sottolineare un aspetto importante e allo stesso tempo assurdo di questa storia: sono stati due consulenti politici ebrei a fare di un ebreo l’obiettivo di una campagna dai tratti antisemiti. Quello che hanno costruito Finkelstein e Birnbaum si lega senza soluzione di continuità a uno dei temi più antichi dell’antisemitismo occidentale: l’ebreo cattivo e avido che vuole dominare il mondo.

E non c’è stato neanche bisogno che la campagna di Orbán usasse il termine ebreo: Orbán combatteva contro un “nemico”, “diverso” e “senza patria” che si vuole impossessare del mondo intero. Era logico che a quel punto sui manifesti contro Soros apparissero delle stelle di Davide: sono stati gli elettori a completare la campagna. Oggi digitando Soros su un motore di ricerca compaiono subito dei fotomontaggi con la sua testa posta su tentacoli di piovra: una classica rappresentazione antisemita.

Nel 2017 la comunità ebraica ungherese ha cominciato a protestare, spingendo l’ambasciatore israeliano a intervenire. Quando Zoltán Radnóti, noto rabbino ungherese, ha saputo che la campagna era stata gestita da due esponenti della comunità ebraica, ne è rimasto sconvolto. Il mondo ebraico è diviso sulla natura antisemita della campagna. Birnbaum ricorda che una volta negli Stati Uniti gli è capitato di essere preso da parte da un membro della Anti-defamation league, che gli ha chiesto spiegazioni. L’organizzazione controlla da anni l’aumento dell’antisemitismo in rete e ha dedicato un intero capitolo di una sua ricerca alla campagna contro Soros. Birnbaum, che osserva lo shabbat e fa parte di numerose associazioni ebraiche, si arrabbia. Si trattava di un progetto “puramente ideologico”, insiste. Soros rappresentava tutto quello a cui Orbán era contrario. “Pianificando la campagna non abbiamo pensato neanche per un attimo al fatto che Soros fosse ebreo”. Lui allora neanche lo sapeva. Non collabora mai con gli antisemiti e ancora prima di cominciare a lavorare con Orbán si era rivolto a persone ben informate in Israele per conoscerne la posizione sugli ebrei. Le risposte ricevute non avevano suscitato i suoi sospetti, anzi Orbán sembrava un avversario coerente dell’antisemitismo. Ha dato alla sua primogenita un nome ebraico, Ráhel. E poi aggiunge Birnbaum: “Forse che non posso attaccare una persona solo perché è ebrea?”.

Il fatto però è che all’epoca della campagna il nome di Soros era noto ai due consulenti da decenni. Inoltre, già negli anni ottanta Finkelstein era stato coinvolto in uno scandalo per aver individuato e usato le convinzioni antisemite di un candidato. In questo caso però le conseguenze sono state molto peggiori: questa campagna ha cambiato il mondo. Le parole sono diventate realtà.

Alla fine di ottobre del 2018 negli Stati Uniti Soros ha ricevuto un pacco bomba da un sostenitore di Trump. Cinque giorni dopo un uomo armato ha assaltato una sinagoga a Pittsburgh, assassinando undici persone. Era convinto di combattere il complotto ebraico. Su un suo account in rete c’erano riferimenti alla “carovana di Soros”. Interrogato in merito, Birnbaum si mostra abbattuto: “Quello che abbiamo fatto può sembrare assurdo, ma allora sembrava la cosa giusta”.

Solo una nuova vittima
Sei mesi dopo il nostro incontro a Berlino, Birnbaum mi ha invitato al Trump Hotel di Washington, dove un amico, Corey Lewandowski, presentava il suo libro su Trump. C’era Kellyanne Conway, la consulente del presidente, e si vendeva caviale a cento dollari l’oncia. I camerieri avevano quasi tutti la pelle scura e gli ospiti quasi tutti bianca. Birnbaum chiacchierava con gli invitati ordinando Moscow mule. Ha cambiato opinione sulla campagna contro Soros? “L’antisemitismo è immortale, ineliminabile”, si è limitato a rispondere. “La nostra campagna non ha reso antisemita nessuno che non lo fosse già. Magari ha indicato agli antisemiti una nuova vittima, ma niente di più. Lo rifarei”.

A dicembre Ignatieff ha dovuto annunciare il trasferimento della Central european university da Budapest a Vienna. La Open society ha spostato a Berlino la sua sede principale. Dal canto suo, Orbán sta espandendo il suo potere sui mezzi d’informazione, a casa ma anche all’estero. Ha programmi ambiziosi. A maggio ci saranno le elezioni europee e l’Ungheria è un faro per la destra di tutto il mondo. Come spiega un esponente del Fidesz, Orbán ha in mente una nuova forma di governo. Ogni passo è preceduto da un sondaggio. Il compito dei politici non è più offrire una visione del futuro, ma rappresentare gli umori popolari del momento. Orbán parla di uno “stato illiberale”.

Finkelstein è morto nell’agosto del 2017. L’Ungheria è stata il suo ultimo progetto. Nel 2011, in uno dei suoi ultimi discorsi pubblici, aveva detto: “Volevo cambiare il mondo. L’ho fatto. L’ho reso peggiore”.

(Traduzione di Susanna Karasz)

Questo articolo è uscito il 15 marzo 2019 nel numero 1298 di Internazionale. L’originale era stato pubblicato sul settimanale svizzero Das Magazin con il titolo Die Finkelstein formel.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it