28 settembre 2019 09:56

Di tutte le cose tristi e strazianti che ho osservato in Afghanistan come giornalista, la casa di Niaz Bibi è forse una delle più tristi. A settant’anni Bibi si è trovata a essere la capofamiglia per circa quaranta bambini: i figli dei suoi tre figli e quelli dei suoi tre nipoti, tutti uccisi dal gruppo Stato islamico (Is). Bibi fa del suo meglio, ma è così povera che tutti vivono in condizioni non molto migliori che in una prigione. “Hai visto mio padre?”, mi hanno chiesto alcuni dei bambini quando ho visitato la loro casa. Non sapevano che i loro padri erano morti. Pensavano che fossero semplicemente lontani, da qualche parte. Guardavano le loro foto e contavano i minuti che li separavano dal loro ritorno.

È quello che succederà ai miei figli se non tornerò a casa un giorno, ho pensato tristemente mentre osservavo Bibi che cercava di nutrire la sua affamata nidiata con appena poche sottili pagnotte di pane. Penseranno che sono ancora vivo e aspetteranno il mio ritorno?

Poco prima Bibi mi aveva portato sul bordo di una strada, nel luogo dove i combattenti dell’Is avevano decapitato i suoi figli nel 2016. Dai suoi occhi incavati erano sgorgate alcune lacrime, mentre mi raccontava di aver sentito quel giorno i suoi ragazzi gridare, implorando pietà. Nessuno era venuto a salvarli.

Spirale di lutto e vendetta
Quando ho visitato la sua abitazione, un anziano era disteso su un letto in un angolo. “È mio marito. È diventato cieco il giorno in cui i miei figli sono stati uccisi”, mi ha detto. E così oggi si prende cura di lui e delle decine di bambini a suo carico.

Chiunque, nell’area in cui vive Bibi, sembra avere una storia da raccontare sulla crudeltà dell’Is. Gli eserciti di Afghanistan e Stati Uniti hanno ricacciato i jihadisti nelle montagne vicine, ma secondo gli abitanti del villaggio si apprestano a tornare. La spirale di violenza, lutto e vendetta è tale che è difficile immaginare come la famiglia di Bibi potrà mai liberarsene un giorno.

“Anche se ho perso così tanto, se la guerra continuerà quando cresceranno invierò tutti questi orfani a combattere per il loro paese e a sacrificare le loro vite per la loro patria”, mi ha detto Bibi.

Vivo a Jalalabad, nell’Afghanistan orientale, dove infuria la guerra tra i taliban e le forze armate sostenute dagli Stati Uniti, e dove anche l’Is è in crescita. Sono quarant’anni che l’Afghanistan è impantanato nella guerra, da quando le truppe sovietiche l’hanno invaso il 24 dicembre 1979. E per quarant’anni i cittadini afgani sono stati assassinati, feriti e torturati. Da tre generazioni consecutive i bambini crescono traumatizzati. Migliaia di persone sono rimaste disabili in ogni angolo del paese.

Come videogiornalista, ascolto e registro regolarmente storie di violenza e tragedie. Mi sono abituato ad assistere alla sofferenza umana. Ma ogni tanto una storia riesce a penetrare la mia armatura e mi tocca come se stessi testimoniando una simile tragedia per la prima volta. Ogni tanto una storia diventa quasi insostenibile. Quella di Niaz Bibi è stata una di queste storie.

Niaz Bibi, al centro, con i bambini della sua famiglia che sono rimasti orfani, nel distretto di Kot, il 22 aprile 2019. (Noorullah Shirzada, Afp)

Un’altra è quella di una famiglia con sette bambini mutilati.

La loro storia è cominciata con una camminata verso una scuola, nell’aprile 2018. Un gruppo di dieci bambini di uno stesso villaggio stavano andando a scuola quando si sono imbattuti in uno strano oggetto che giaceva a terra. Curiosi, come lo sono i bambini di tutto il mondo, l’hanno raccolto e mostrato a una zia che li accompagnava. Poi c’è stata un’esplosione. Era un proiettile da mortaio inesploso: un oggetto comune in un paese che decenni di conflitti hanno lasciato disseminato di mine, munizioni e bombe. L’esplosione ha ucciso la zia e tre bambini. Gli altri sette bambini hanno tutti perso un arto.

Quando ho sentito parlare dell’incidente, mi sono precipitato all’ospedale per filmarne gli effetti. Quando sono arrivato, ho visto i bambini sopravvissuti distesi su un letto di fortuna, circondati dai loro parenti che piangevano. È stata una scena difficile per me. Alla fine mi sentivo come se qualcosa di terribile fosse accaduto alla mia stessa famiglia.

La scena all’ospedale mi ha scosso al punto che in seguito ho voluto fare visita ai bambini a casa loro. Vivono in una zona molto pericolosa, controllata dai taliban, sulla linea del fronte del conflitto. Anche l’Is è presente nell’area e i suoi combattenti sono noti per aver ucciso senza pietà persone innocenti. Entrambi i gruppi non amano i giornalisti. I taliban possono ucciderti o prenderti ostaggio se sospettano che tu sia una spia al soldo degli Stati Uniti. L’Is semplicemente ti ucciderebbe sul posto, perché considera i giornalisti spie statunitensi e garantisce delle ricompense ai suoi combattenti che li uccidono.

I figli e i nipoti di Hamisha Gul davanti alla loro casa nel distretto di Khogyani, Nangarhar, Afghanistan, il 30 aprile 2019. (Noorullah Shirzada, Afp)

Mio zio e altri parenti mi hanno consigliato di non andare in quella zona. “Non correre il rischio”, mi hanno detto. Inizialmente gli ho dato ascolto. Ma poi ho pensato: se smetto di lavorare per paura tanto vale smettere del tutto di lavorare in generale, perché in tutto il paese dov’è un’area completamente sicura?

Ho comunque preso delle precauzioni. In una situazione ideale, avrei trascorso l’intera giornata nella casa della famiglia, a registrare i filmati di cui avevo bisogno. Ma era impossibile: i taliban e l’Is avrebbero scoperto che un estraneo era in zona e mi avrebbero ucciso o sequestrato. La chiave per rimanere illeso era effettuare varie visite di breve durata, partendo prima che si potesse diffondere la notizia della mia presenza. Alla fine ho visitato la loro casa quattro volte, per dieci minuti ogni volta. Ci sono andato di pomeriggio, quando la luce era buona. Insieme a me c’erano mio fratello o un amico, che rimanevano nell’auto, parcheggiata a ottocento metri dall’abitazione, a sorvegliare l’eventuale arrivo di uomini in motocicletta, il mezzo di locomozione preferito dei taliban.

La semplice abitazione familiare era crivellata dalle pallottole. I bambini erano accovacciati all’interno, spaventati. L’unica cosa di cui parlavano era l’esplosione, ed erano chiaramente traumatizzati. A un certo punto, sono usciti e si sono seduti su una panchina, dove li ho filmati intenti ad arrotolare delle calze sui loro moncherini – nell’anno trascorso dall’esplosione le loro ferite erano a malapena guarite – e a muoversi con le loro protesi. Tutti erano in preda al dolore e continuavano a dirmi che il loro futuro era stato distrutto.

Queste non sono solo le storie di due famiglie. Sono le storie di un intero paese

È stato difficile assistere a una scena simile. La cosa che più mi ha colpito è stato il momento in cui una bambina, di appena sei anni, mi ha detto che suo padre se n’è andato di casa alcuni anni fa e non è mai tornato. Non sapeva se fosse vivo o morto. Nonostante il pericolo di raccontare questa storia, sono felice di aver corso il rischio. So che essere un giornalista nel mio paese comporta dei rischi. Che ogni volta che esco di casa, sto giocando con la mia vita. Che tutta la mia famiglia si preoccuperà finché non sarò tornato.

Ma è importante raccontare storie come queste al resto del mondo. Queste non sono solo le storie di due famiglie. Sono le storie di un intero paese, perché ogni famiglia di questo paese ha avuto persone uccise, ferite o sfollate.

Ho lavorato a queste storie per mostrare il vero volto della guerra. Affinché le persone che vogliono che in Afghanistan la guerra continui possano rendersi conto che le vittime sono civili. Donne e bambini. Migliaia di persone rese disabili in ogni angolo del paese a causa dei combattimenti. Metà dei bambini non va a scuola a causa degli scontri armati.

Un’altra generazione sta crescendo senza istruzione, pronta a cadere nelle braccia di gruppi terroristi che li attirano affinché combattano contro il governo. E affinché questo conflitto senza fine vada avanti. Il dolore e la tristezza che ho provato di fronte a queste storie resterà con me per sempre.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato sul blog Correspondent dell’Agence France-Presse. Nel blog giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.

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