31 maggio 2020 12:35

Attraversò correndo l’aeroporto di Mumbai controllando ogni compagnia aerea. Era l’inverno del 1984. Eravamo arrivate in India dagli Stati Uniti e ci trovavamo a Mumbai da due settimane. Avevo otto anni.

“Ci sono voli per Madurai?”.

Madurai era l’aeroporto più vicino a Kodaikanal, a soli 120 chilometri dal luogo in cui viveva Sathya Sai Baba. Ma non c’erano voli per Madurai.

Il piano successivo di mia madre, pervasa da un folle senso di urgenza, era trovare un taxi. Un’auto privata probabilmente era troppo costosa. Mi trascinò con sé mentre avvicinava un taxi dopo l’altro fuori dall’aeroporto e sbirciava in ogni vettura per valutare l’autista. Voleva essere sicura che fosse qualcuno di cui ci si potesse fidare, qualcuno che non ci avrebbe stuprate o derubate.

Trovò un tassista anziano e gentile, vestito con un lungi lacero, che ci mise in guardia dai banditi che rapivano le donne di notte e derubavano i turisti. Guidava tenendo accanto a sé un lungo machete.

Mi accoccolai sul sedile posteriore ma non chiusi occhio per tutte le 24 ore del tragitto in macchina. Guardavo invece il paesaggio dell’India che sfilava davanti a noi mentre viaggiavamo da nord a sud. La mia pelle si appiccicava al logoro vinile del sedile; il mio sudore si mescolava all’aria pesante.

Più o meno ogni ora sollevavo con cautela il viso verso il finestrino e guardavo i furgoni che ci superavano. Mi chiedevo se fossero pieni di uomini che avrebbero potuto mutilarci con i loro lunghi coltelli. Sapevo più o meno cosa fosse uno stupro, come si trattasse di una violazione della pelle. Immaginavo degli uomini portare mia madre da qualche parte nella giungla per farle del male in modo irrimediabile. Il solo pensiero mi terrorizzava.

Guardavo le persone sui risciò a motore, gli uomini sui motorini, il modo in cui tutte le macchine e i camion sollevavano la terra formando un’infinita nuvola di polvere.

Lontano dall’originale
Era tutto così diverso da Pasadena, in California, il posto dove vivevamo. Là le strade erano ampie e asfaltate, le linee bianche e gialle demarcavano con chiarezza lo spazio per le auto, che fossero lucide berline o malandate Chevrolet Camaro. In California non c’erano furgoni dipinti con i colori primari blu, rosso e giallo né automobili che si accavallavano sconsideratamente le une sulle altre, niente scie di fumo e polvere che indicavano la direzione in cui era diretta ogni auto, quasi a voler scrivere la storia della sua vita veicolare. In seguito ho capito che viaggiare in taxi piuttosto che su un’auto a noleggio era stata la scelta più sicura, perché ci mescolavamo al linguaggio locale dei veicoli.

Andavamo da Sai Baba ogni anno, ma questo viaggio era stato particolarmente convulso. Mentre eravamo a Mumbai un astrologo aveva detto a mia madre che era un momento favorevole e dovevamo andare a Kodaikanal da Sai Baba. Mia madre era convinta che stavolta ci avrebbe benedette, che ci avrebbe scelte: ci avrebbe portato nella sua grande casa, avrebbe risposto alle sue domande, le avrebbe consegnato un diamante sfavillante ed esaudito i suoi desideri. Era con quest’idea che avevamo attraversato da nord a sud il subcontinente indiano.

Avevo cinque anni quando era cominciata l’ossessione di mia madre, un’immigrata bengalese negli Stati Uniti rimasta vedova, per Sathya Sai Baba, un filantropo che sosteneva di essere la reincarnazione di Sai Baba di Shirdi. Il Sai Baba originale aveva vissuto senza possedere nulla, un autentico fachiro. Era stato venerato da seguaci indù e musulmani, e i suoi insegnamenti fondevano elementi di entrambe le religioni, facendo da pacificatore in una nazione che sarebbe diventata sempre più sprezzante e violenta verso la minoranza musulmana.

Più la fede di mia madre in Sai Baba si rafforzava, più lei dilapidava l’eredità di mio padre

Sathya Sai Baba non viveva così. Aveva un autista che lo portava dappertutto in Mercedes. Le sue case e le sue macchine erano doni di ricchi ammiratori in India, Europa occidentale e Stati Uniti. Indossava sempre un kurta arancione a maniche lunghe perfettamente pulito. La sua enorme massa di capelli puntava verso l’alto come un fascio di elettricità disegnato da un vignettista. Era rumoroso e sbruffone, così come il suo stile di vita, con case lussuose a Puttaparthi e a Kodaikanal, una località turistica in collina.

Più la fede di mia madre in Sathya Sai Baba si rafforzava, più lei dilapidava l’eredità lasciatale da mio padre per viaggiare in India e all’estero. Nei nostri viaggi andavamo a Calcutta a trovare la mia dida, la madre di mia madre, e facevamo visita a Sai Baba almeno due volte all’anno.

Ogni visita a Sai Baba si svolgeva allo stesso modo. Lui separava i seguaci per genere. Le donne e i bambini erano raggruppati insieme. Superavamo a piedi la recinzione che circondava la sua residenza e ci sedevamo sulla dura terra, cosa che ci regalava una sensazione di concretezza che svaniva all’arrivo di Sai Baba. L’aspettativa faceva tendere e risvegliare i nostri corpi. Volevo disperatamente vedere i suoi piedi nudi avvicinarsi a noi, sentire la sua mano appoggiata sui miei capelli e ricevere le sue buone nuove. Mia madre sollevava le mani in preghiera. Io copiavo i suoi movimenti e sollevavo le mie mani in adorazione. Aspettavamo che ci notasse.

Lui si aggirava e salutava come una reginetta di bellezza, con il lungo kurta arancione che sfiorava la polvere e la sporcizia per terra. Mia madre teneva sempre un biglietto in mano, sperando che lui lo prendesse.

“Ti prego, fai che le nostre finanze siano stabili”.

“Ti prego, fa’ che Rani abbia una buona istruzione e trovi un buon marito”.

“Quando morirò?”.

Lui sceglieva delle persone a caso e le portava nella sua casa mastodontica dove eseguiva piccoli miracoli. Faceva spuntare magicamente dalle sue mani oggetti di lusso come diamanti, smeraldi, rubini e vibuthi, una cenere sacra. Non ho mai capito come facesse a tirar fuori quelle ricchezze. Immagino si trattasse di un trucco che eseguiva con le mani.

Sai Baba era un noto filantropo. Accettava denaro dai suoi seguaci ricchi, costruiva ospedali e scuole per i poveri. Un’élite di persone istruite, tra cui medici e insegnanti, lavorava per lui in cambio delle sue benedizioni.

Girava voce di molestie sessuali, del suo interesse per i ragazzi adolescenti, tutte accuse negate da Sai Baba e da molti dei suoi seguaci.

In seguito ho scoperto che noi non avevamo soldi da donare alle sue attività benefiche; tutto quello che avevamo veniva razionato per il viaggio.

Un anello di smeraldo
Alla fine di quel viaggio frenetico arrivammo nel nostro albergo, dove alloggiava una coppia di americani bianchi. Anche loro erano venuti a trovare Sai Baba. Avevano una neonata. Non doveva avere neanche cinque mesi. La moglie indossava all’indice un enorme anello con uno smeraldo incastonato tra minuscoli diamanti. Mia madre guardava quell’anello e la donna guardava lei. Le bionde trecce della donna erano in forte contrasto con i capelli di mia madre, scuri come la notte; gli occhi blu della donna erano penetranti, quelli marrone scuro di mia madre carichi di desiderio. La donna sapeva che lo sguardo sul volto di mia madre era in realtà una domanda.

“Oh, questo? Sì, me lo ha fatto Sai Baba”.

La donna ci spiegò che Sai Baba li aveva portati in casa sua e aveva eseguito i suoi piccoli miracoli, donandole l’anello di smeraldo e la statuina di una divinità. Tirò fuori dalla borsetta la statuina e noi la guardammo con stupore. Tenni la figurina sul palmo della mia mano immaginando che fosse un medaglione indossato da un supereroe e che avendolo con me sarei stata fortunata. La donna ci raccontò di come la sua famiglia fosse stata scelta e ci disse che avevano comprato a Sai Baba un’automobile in cambio delle sue benedizioni. Raccontava la storia con una punta di superiorità, lanciando a mia madre occhiate piene di quella che oggi posso definire solo pietà.

Nella nostra stanza di albergo mia madre frugava tra le nostre cose, cercando carta e penna per scrivere tutte le domande che avrebbe voluto fare a Sai Baba. Io ero esausta, avevo freddo ed ero affamata. Sentivo il richiamo di un grande letto dove distendermi. Implorai di chiamare il servizio in camera. Mia madre ordinò il mio piatto preferito, masala dosa, che arrivò avvolto di vapore su un thali di acciaio inossidabile. Ero sopraffatta dal profumo delle patate e delle cipolle mescolate con le foglie di curry, i semi di senape nera e i peperoncini verdi, il tutto avvolto da una lunga crêpe.

Mi riempii la bocca, intingendo pezzi di dosa nel chutney di cocco e nel sambar con cui era servita. Poco dopo cominciai a vomitare, rovesciando il cibo che avevo appena divorato nel water dell’albergo. Giacevo sul pavimento con gli occhi fissi sul soffitto e mi chiedevo se mia madre avrebbe trovato le risposte che era venuta a cercare.

Salita impervia
La mattina successiva mia madre spinse il mio corpo scosso dai brividi in cima a una collina. Eravamo a cinque chilometri dalla casa di Sai Baba.

“Dobbiamo vederlo oggi”, mi disse. “Oggi è il giorno giusto. Lo so”.

Tirai i lembi del mio scialle di lana per avvolgermelo attorno. Ero debole, mi girava la testa ed ero disidratata dopo aver vomitato la notte precedente. Mia madre non se ne era accorta. Aveva uno sguardo che avevo già visto prima: implorava disperatamente di avere delle risposte, convinta di essere vicina a un’opportunità. I suoi occhi marrone scuro erano un panorama di speranza e meraviglia, gli zigomi alti e in allerta.

Io guardavo il sentiero davanti a me. Una volta di alberi verde smeraldo segnava l’orizzonte. Scampoli di nebbia ci circondavano. Allungai la mano per catturare una manciata delle minuscole goccioline che volteggiavano nell’aria. Si disintegrarono senza lasciare traccia.

Mentre raccoglievo il fiato per continuare a muovermi, mia madre mi teneva stretta per il polso. “Ci sto provando, mamma, ci sto provando”, dicevo con la mia voce da bambina di otto anni. Sapevo di doverla seguire. Non era possibile alcuna resistenza infantile. Lei era tutto ciò che avevo. Ero attaccata a lei con la mente e con il corpo, e volevo solo compiacerla.

Trascinavo i piedi in avanti.

“Mamma, possiamo prendere un taxi? Non mi sento bene”.

“No, sona, l’aria fresca ti farà bene”, dichiarò mia madre, forse per convincersi del fatto che il mio malessere poteva essere curato dalla vista di Sai Baba e dalla benedizione che avrebbe potuto darci.

“Dobbiamo camminare, dobbiamo vivere con il minimo indispensabile, come ci ha insegnato Sai Baba”.

Non capivo, ma confidavo nel fatto che mia madre sapesse cos’era meglio per noi. Proseguendo nel cammino la testa cominciò a girarmi sempre più forte a causa dell’altitudine. Mi fermavo per trovare l’equilibrio e stiravo le gambe sperando di renderle abbastanza forti da reggermi. Una scintillante Hindustan Ambassador bianca si avvicinò a noi rallentando. Nella macchina c’era la coppia con la neonata. La donna si voltò a guardarci. Il mio sguardo incontrò il suo e si posò sul suo volto e su quello di sua figlia. Aveva un aspetto sano e felice, con il suo perfetto nucleo familiare. All’improvviso cominciai a vomitare. La macchina si allontanò.

Non avvertivo la disperazione che torturava mia madre durante quei viaggi in cerca della salvezza. All’epoca non sapevo che era colpa dei demoni che vivevano dentro di lei, demoni che le crescevano nella mente e che alla fine l’hanno condotta a una morte tragica. Tuttavia quel momento – quando l’auto ci superò, con gli schizzi di vomito sui piedi e mia madre distratta, in preda al desiderio che qualcuno ci predicesse il futuro – definì il mio rapporto con la religione e mi svelò le dinamiche della ricchezza e della razza.

Oggi capisco che gli ardenti desideri di mia madre erano caotici e pericolosi. A otto anni, però, notavo solo la differenza razziale tra mia madre e la coppia nell’auto immacolata. Mi sentivo per lo più confusa: come potevano lasciarsi alle spalle una bambina e sua madre? Una bambina che stava male, che non avrebbe dovuto camminare per chilometri per vedere un uomo che incarnava una forza potente? Ho compreso il significato dell’ipocrisia, anche se non conoscevo quella parola.

Mi chiedevo come facesse Sai Baba a credere che fossero quelle le persone meritevoli della sua attenzione. E anche se il pensiero che la coppia non mi voleva sui sedili bianchi della loro auto scintillante mi faceva sentire sporca e contaminata, dentro di me sentivo anche la rabbia. Le mie gambe all’improvviso presero forza e mi spinsero in avanti, verso la residenza di Sai Baba. Sentivo la stessa disperazione di mia madre, volevo dimostrare alla coppia che eravamo degne dell’amore e dell’attenzione di Sai Baba. Che non eravamo indesiderate.

Quando alla fine siamo arrivate alla casa di Sai Baba, centinaia di persone varcavano il colonnato della sua proprietà. Ci sedemmo per terra. Un coro di uomini suonava strumenti e trasportava Sai Baba su un trono di velluto. Era posizionato proprio di fronte a noi e aveva la postura di un idolo, con le mani davanti al petto, strette in preghiera. Alla fine scese dalla seduta regale e cominciò a camminare, indicando chi voleva portare in casa sua.

Sai Baba domandò alla donna bianca con la bambina di alzarsi e unirsi ai pochi prescelti. Mia madre la guardava con desiderio e si aspettava che le predizioni dell’astrologo si sarebbero finalmente materializzate e Sai Baba ci avrebbe fatto cenno di seguire la donna, rendendoci felici. Ma lui non scelse.

Non lo fece mai.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul sito in inglese dell’emittente qatariota Al Jazeera.

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