10 maggio 2020 15:00

Quella tra le Olimpiadi e Sergej Bubka è una storia d’amore cominciata male e finita peggio, con un solo grande momento di gioia e moltissimi incidenti di percorso: politici, muscolari e di sfortuna pura.

Icona sportiva globale tra anni ottanta e novanta, Bubka è un caso esemplare di atleta capace di creare un’identificazione quasi totale, agli occhi del grande pubblico, tra la propria disciplina e sé stesso. Anche chi non sapeva nulla di atletica leggera sapeva che dietro a quel nome facile da pronunciare, evocativo, liberatorio, c’era il dominatore assoluto del salto con l’asta. A vederlo in televisione, con le narici larghe, il viso segnato e il mento sporgente che gli faceva scomparire i denti di sotto, uno gli avrebbe dato molti più anni di quelli che aveva. Mai ti saresti aspettato quella forza, quella capacità di impugnare un’asta così pesante e correre così leggero. Bubka sembrava sempre sul punto di conficcarsi l’asta nel petto e morire. Poi invece volava in alto e oltre l’asticella, senza nemmeno sfiorarla e ricadendo sul materassino.

Anzi, quasi sempre. Sfortunatamente per lui, molti dei pochissimi insuccessi s’intrecciano col palcoscenico più prestigioso dell’atletica: i giochi olimpici. Per precocità e longevità Bubka avrebbe potuto vincere quattro, forse anche cinque ori. Ma il destino ha voluto altrimenti.

Nato a Luhansk e cresciuto a Donetsk – le due province dell’Ucraina orientale oggi al centro della guerra tra Kiev e Mosca – Bubka si formò seguendo le orme del fratello Vasilij, di tre anni più grande e a sua volta saltatore con l’asta per la selezione sovietica prima e ucraina poi. Talento cristallino, Sergej nell’estate del 1984 non aveva neppure 21 anni ma deteneva già vari record del mondo, al chiuso e all’aperto. Il boicottaggio dell’Unione Sovietica e di altri 13 paesi del blocco socialista gli impedì di partecipare alle olimpiadi di Los Angeles, dove sarebbe stato il favorito indiscusso.

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Nel 1988, a Seul, le cose andarono come dovevano andare, e sarebbe stata l’unica volta: con un salto di 5,90 metri, lontano dal suo primato mondiale di 6,06, ma comunque record olimpico, Bubka occupò il gradino più alto di un podio tutto sovietico. L’onta di Los Angeles era lavata. E nei quattro anni successivi niente sembrò potersi frapporre tra lui e la gloria, neppure il crollo dell’Unione Sovietica: Bubka collezionò vittorie, record e titoli mondiali.

Nel luglio del 1992 si aprirono le olimpiadi di Barcellona, le prime dopo la caduta del muro di Berlino. Anche nello sport, la sfida tra Mosca e Washington cominciava a cedere il passo all’affermazione di un’unica superpotenza. Furono le olimpiadi del celebrato Dream Team, la squadra di basket statunitense. Nella recente serie The Last Dance, trasmessa in queste settimane, si racconta a un certo punto di come Michael Jordan fosse allora, più che un fenomeno sportivo, un’icona globale tout court. Per illustrare il concetto vediamo la stella dei Bulls camminare per le strade di Barcellona, ai piedi di un gigantesco telone pubblicitario della Nike che copre i sette piani di un edificio e che ritrae lo stesso Jordan. Quello che non si dice, ma si vede, è che sul telone, accanto a Jordan e grande uguale, c’è proprio Bubka. Per la Nike fu una scelta logica: i due campioni delle due ex superpotenze, ora riuniti sotto il logo dell’azienda. La fine di una storia e l’inizio di un’altra. Per il Dream Team il tragitto verso l’oro olimpico fu una marcia trionfale. Per Bubka il destino aveva in serbo un tracollo inimmaginabile, senza attenuanti.

Bubka si presentò in pedana forte del primato olimpico e di quello mondiale all’aperto di 6,11 metri, ottenuto a Digione due mesi prima. Non più sovietico ma non ancora (sportivamente) ucraino, Bubka vestiva i colori della Squadra unificata, emanazione olimpica della precaria Comunità degli stati indipendenti. Che, per inciso, finirà al primo posto per medaglie, d’oro e totali.

Durante le qualifiche niente lasciò intuire alcunché di sinistro. Per arrivare alle finali a Bubka bastò un salto: 5,60 metri appunto, uno scherzo per lui, ma comunque il miglior risultato tra gli atleti in gara. Salto pulito, saluti al pubblico, niente da segnalare.

Tonfo metallico
Due giorni dopo, la catastrofe. Durante il primo tentativo Bubka si arrestò a metà rincorsa, un presagio funesto. Dopo aver fallito il secondo salto, con l’asticella posta a 5,70, si ritrovò improvvisamente e inaspettatamente con le spalle al muro. Sbagliando sarebbe stato fuori, ma azzeccando il salto avrebbe potuto ancora mirare all’oro. La scelta dei 5,75 metri era pienamente alla sua portata, ma la tensione non era per questo meno palpabile. Anche il pubblico era con lui, come dimostrava l’applauso ritmato e sentito. Respirando forte, Bubka prese la rincorsa, piantò l’asta a terra, e si inarcò verso il cielo. Ma non arrivò neanche vicino a superare l’asticella, che cadde sul materassino con tonfo metallico.

Bubka fu uno dei due atleti, su 12, a non effettuare neanche un salto valido. Oro e argento, entrambi a quota 5,80 metri, andarono ai suoi compagni di squadra, i russi Maksim Tarasov e Igor Trandenkov, che probabilmente non ci speravano neppure. Terzo l’atleta di casa Javier García Chico, proprio con 5,75, suo record in carriera. Bubka diede la colpa al vento, alla scelta dell’asta per il terzo salto e al suo stesso approccio mentale, che gli fece perdere tempo e concentrazione durante la preparazione. Quello che non disse era che già allora il tendine d’Achille gli creava qualche problema.

Nel 1993 la Nike, che evidentemente interpretava il fiasco catalano come un incidente di percorso, lanciò sul mercato europeo tre spot a tema operistico. Due erano intitolati, rispettivamente, Charles Barkley of Seville e Don Quincy, ovvero Quincy Watts, effimero trionfatore dei quattrocento metri a Barcellona. Il terzo, The magic shoes, aveva appunto Bubka come protagonista. Lo spot si apriva con Sergej che cantava con voce tenorile (rigorosamente in italiano) “le olimpiadi perse ho” e si chiudeva con un coro che scandiva baldanzoso “avanti ad Atlanta!”.

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Atlanta, ovvero la sede delle successive “olimpiadi del centenario, nel 1996. Dopo Barcellona la striscia di vittorie e record fu meno impressionante, ma Bubka restava con ogni probabilità l’atleta più forte in circolazione. Alla fine, però, non gli fu concesso di dimostrarlo. Alla vigilia delle olimpiadi i fastidi a entrambi i tendini lo costrinsero infatti a rinunciare (chi gareggiò fu il fratello Vasilij, che non si qualificò per la finale). Ci riprovò anche nel 2000 a Sydney, ma aveva già 37 anni e non raggiunse neppure la finale, fallendo tre salti su tre. Sarebbe stato un finale magnifico, da Flauto magico. Troppo bello per essere vero.

In fondo almeno un oro, quello di Seul, Sergej Bubka lo ha ottenuto. E con esso sei medaglie d’oro ai mondiali, e un’infinità di record. Tra 1984 e 1994 migliorò il primato mondiale all’aperto per 17 volte. In quei dieci anni solo il francese Thierry Vigneron, nell’agosto del 1984, riuscì a strapparglielo. Ma solo per un centimetro, e per una manciata di minuti: Bubka se lo riprese nel corso della stessa gara, da vero dominatore. L’ultimo record di 6,14 metri, ottenuto a Sestrière, è durato vent’anni, un’infinità per l’atletica. A strapparglielo un altro francese, Renaud Lavillenie, nel 2014, a Donetsk. La città dove Bubka si è formato e dove in suo onore è stata eretta una statua colossale, di sapore decisamente sovietico. Si vede che anche questo era destino.

(Testo di Federico Ferrone e Alessio Marchionna)

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