12 luglio 2020 15:00

In ogni sport prima o poi irrompe sulla scena qualcuno così spiazzante da costringere a ripensare il gioco. Di solito è un personaggio carismatico, in anticipo rispetto ai tempi, con una personalità e un modo di competere così unici da risultare disarmante e, per certi versi, indecifrabile. A volte il “marziano” si rivela anche il migliore della sua generazione o addirittura di tutti i tempi: Fausto Coppi, Muhammad Ali, Usain Bolt. Ma più spesso non riesce ad affermarsi del tutto, magari perché il sistema lo considera un corpo estraneo e fa di tutto per espellerlo. In molti casi la storia marchia queste figure con il triste giudizio di “genio incompiuto”, impedendo per molti anni di vedere il loro reale contributo.

È la storia di David Ionovič Bronštejn, che a cavallo della seconda guerra mondiale scalò con impressionante naturalezza le gerarchie degli scacchi internazionali e arrivò a un passo – a mezzo punto, per essere più precisi – dal titolo di campione. Bronštejn non somigliava per niente all’immagine del tipico scacchista sovietico. Come giocatore era aggressivo, geniale, sportivo e imprevedibile; nella vita di tutti i giorni era generoso, umile, romantico e soprattutto – cosa che gli creò problemi per tutta la vita – ostile a ogni forma di privazione della libertà.

Era nato a Bila Cerkva, una piccola città nel centro dell’Ucraina, il 19 febbraio del 1924, 28 giorni dopo la morte di Lenin e mentre Stalin si preparava a instaurare un regime di terrore che avrebbe colpito in modo particolarmente duro famiglie come la sua: i suoi genitori erano poveri, ebrei e probabilmente imparentati con Lev Trotskj, il cui vero nome di famiglia era Bronštejn. Quando David aveva tredici anni suo padre fu arrestato e internato come “nemico del popolo” sulla base di accuse che, come in tanti altri casi, si sarebbero rivelate inventate.

Nei sette anni in cui il padre rimase nel gulag (fu liberato nel 1944 in pessime condizioni di salute), David passò rapidamente dalla fama scacchistica al vagabondaggio. A 15 anni arrivò secondo ai campionati di Kiev, a 16 diventò maestro sovietico, a 17 i suoi progetti di vita furono stravolti dallo scoppio della seconda guerra mondiale. La miopia lo salvò dall’arruolamento, ma dovette rinunciare all’idea di iscriversi alla facoltà di matematica di Kiev, così se ne andò dalla città, a piedi. Nei tre anni successivi girò per l’Unione Sovietica e fece vari lavori – tra le altre cose partecipò ai progetti di ricostruzione degli edifici distrutti –, prestò servizio in un ospedale nel Caucaso e alla fine si ritrovò a Mosca.

Resa dei conti
Mentre si avvicinava la sconfitta dei nazisti, nella capitale potè riallacciare i fili della sua carriera scacchistica. Fece arrivare i suoi genitori da Kiev, trovandogli una sistemazione non lontano da Mosca mentre lui dormiva a casa di amici o in fredde e anonime stanze d’albergo. Nel 1945 arrivò terzo ai campionati sovietici e si affermò come uno dei migliori giocatori del paese. All’epoca Stalin aveva già lanciato il suo piano quinquennale per gli scacchi, con l’obiettivo di strappare all’occidente la supremazia scacchistica (il campione in carica era Aleksandr Alechin, che era russo ma aveva ripudiato l’Unione Sovietica e ottenuto la cittadinanza francese). Nel 1948 l’obiettivo fu raggiunto quando Michail Botvinnik diventò campione del mondo.

Botvinnik era il prototipo dello scacchista sovietico del tempo: calcolatore, attendista e, soprattutto, devoto al regime (una volta, dopo aver vinto un torneo in Inghilterra, mandò un telegramma a Stalin ringraziandolo per averlo ispirato). Sconfitti gli avversari esterni, i funzionari della federazione scacchistica sovietica cominciarono a preoccuparsi di quelli interni. Di uno in particolare.

In quel periodo Bronštejn non faceva che vincere, con uno stile di gioco dinamico e fantasioso che spiazzava avversari e commentatori. Nel 1948 sbaragliò la concorrenza al torneo internazionale di Saltsjöbaden, in Svezia, e due anni dopo vinse il torneo dei candidati di Budapest, guadagnandosi il diritto di sfidare Botvinnik per il titolo. La posta in palio non poteva essere più alta, per lo sfidante ma soprattutto per il regime, che rischiava di ritrovarsi come portabandiera del principale sport nazionale il figlio di un nemico del popolo, per di più ebreo. La sfida ebbe luogo tra il 15 marzo e l’11 maggio del 1951. Si giocava al meglio delle 24 partite, un punto per la vittoria e mezzo punto per la patta. Vinceva il giocatore con il punteggio più alto.

Bronštejn (a destra) contro Botvinnik durante il match per il campionato del mondo del 1951.

In prima fila, nella sala Čajkovskij di Mosca, Bronštejn poteva vedere bene sua madre e suo padre, sorvegliato a breve distanza dal generale Viktor Abakumov, capo della polizia segreta Mgb.

La tensione condizionò i giocatori, soprattutto lo sfidante. Alla sesta partita Bronštejn – che era già quasi completamente calvo e dimostrava più dei suoi 27 anni – pensò per 45 minuti prima di muovere il suo pezzo, poi fece la peggiore mossa possibile, perdendo quando avrebbe potuto facilmente conquistare mezzo punto. Alla nona perse clamorosamente una torre, ma grazie alla sua inventiva riuscì a rimediare e a strappare la patta. Nonostante tutto, dopo 22 partite era avanti di un punto. Con due patte avrebbe conquistato il titolo mondiale. Ma alla penultima partita, nonostante una buona posizione sulla scacchiera, si fece sorprendere dall’avversario, e all’ultima non riuscì andare oltre la patta. Finì con entrambi i giocatori a 12 punti, con il pareggio che da regolamento permise a Botvinnik di conservare il titolo.

La 23esima partita del campionato del 1951 è passata alla storia come uno dei momenti più importanti – e controversi – della storia degli scacchi. Negli anni si è detto di tutto per spiegare quel risultato. In molti hanno ipotizzato che lo sfidante fu costretto a perdere dai funzionari del regime. È presumibile che in realtà le cose siano andate come ha scritto lo stesso Bronštejn nel libro L’apprendista stregone (Caissa Italia 1997):

Sono state scritte molte stupidaggini su questo argomento. L’unica cosa che mi sento di dire è che ero sottoposto a una forte pressione psicologica che proveniva da diverse parti: stava solo a me decidere se cedere o meno a questa pressione. Avevo le mie buone ragioni per non voler diventare campione del mondo: in quel periodo fregiarsi di quel titolo significava entrare a far parte della sfera burocratica ufficiale del mondo degli scacchi, il che implicava una serie di obblighi di tipo formale. Tutto questo non era compatibile con il mio carattere. Fin dall’infanzia ho sempre amato molto la libertà e, malgrado il paese in cui sono cresciuto, ho provato a vivere ogni momento della mia vita con questo spirito. Sono felice che ancora oggi mi senta così e possa godere della mia libertà

Aveva dunque preferito perdere per non diventare il portabandiera del regime che disprezzava. E poi era convinto (e a ragione) di non aver veramente perso, e di aver in qualche modo condizionato il corso della storia scacchistica. In altro punto del libro scrive: “Per quanto mi riguarda quel match significò la vittoria delle mie idee scacchistiche e da allora Botvinnik cominciò a cambiare stile e i suoi risultati ne trassero giovamento. Inoltre la nuova generazione di giocatori studiò le mie partite e imparò molto da esse”.

La storia gli avrebbe dato ragione, ma solo molto tempo dopo. Negli anni che seguirono il match del 1951 Bronštejn fece sempre più fatica a giocare nei tornei più importanti – una regola limitava il numero di partecipanti per ogni paese, e sembravano esserci sempre troppi russi davanti a lui –, mentre Botvinnik conservò il titolo mondiale fino al 1957 e poi lo rivinse altre due volte, nel 1958 e nel 1961. Nel 1976, quando lo scacchista Viktor Korčnoj approfittò di un torneo nei Paesi Bassi per abbandonare l’Unione Sovietica, Bronštejn fu uno dei pochi grandi maestri che si rifiutarono di firmare una lettera di condanna, e il regime colse l’occasione per impedirgli di giocare all’estero.

Il divieto durò molti anni, fino all’avvento di Michail Gorbačëv e della perestrojka. A quel punto la storia dell’Unione Sovietica fu riscritta, anche quella degli scacchi. Botvinnik morì nel 1995, con quasi nessuno dei suoi colleghi disposti a parlare bene di lui, mentre Bronštejn si risollevò per l’ennesima volta, continuando a cambiare il modo di concepire questo sport. Elaborò un modello di valutazione dei giocatori basato sui tempi di riflessione tra una mossa e l’altra, fu uno dei primi a proporre il gioco rapido e a interessarsi alle potenzialità dei computer. Non meno importante è stato il suo contributo come divulgatore: oggi i suoi libri, L’apprendista stregone e soprattutto Il torneo internazionale dei Grandi Maestri - Neuhausen-Zurigo 1953 (Caissa Italia 2004) sono considerati dei capisaldi della letteratura scacchistica. Continuò a giocare e a scrivere fino al 2006, quando morì a 82 anni a Minsk, in Bielorussia. Il suo contributo agli scacchi è stato immortalato da una frase di Tigran Petrosjan, campione del mondo tra il 1963 e il 1969:

I giocatori delle nuove generazioni pensano che gli scacchi moderni siano nati con i volumi Chess Informant, ma quelli della mia generazione sanno che sono nati con Bronštejn

Il suo lascito umano è racchiuso nel ricordo di Tatjana Boleslavskaja, la sua terza moglie:

Non ho mai incontrato un essere umano così propenso al bene e così privo di ogni difesa contro una forza del male che fin troppe volte gli si è manifestata in ogni sua forma

(Testo di Federico Ferrone e Alessio Marchionna)

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