18 maggio 2021 14:02

Il disegno di legge “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”, detto anche ddl Zan, attualmente in discussione alla commissione giustizia del senato, interviene su due articoli del codice penale che puniscono la propaganda di idee fondate sulla superiorità o l’odio etnico o razziale, estendendone l’ambito di applicazione. Amplia inoltre la cosiddetta legge Mancino inserendo accanto alle discriminazioni per razza, etnia e religione anche le discriminazioni per sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità.

A livello mediatico il dibattito si è infuocato intorno ai temi dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale, mentre è rimasto un po’ in sordina un altro elemento di discriminazione preso in considerazione dal disegno di legge, la disabilità.

L’articolo 3 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità le riconosce per la prima volta in modo esplicito “come parte della diversità umana e dell’umanità stessa”. Il principio sancisce che essere una persona disabile non è meglio o peggio rispetto a non esserlo, e che non sono le caratteristiche di un individuo a definirne lo svantaggio ma il contesto in cui è inserito. In altre parole la disabilità è il risultato dell’interazione tra condizioni individuali definite fuori dalla “norma” (sancita dal modello medico) e una società non preparata ad accoglierle. Non a caso in inglese “persone con disabilità” si dice disabled people”, cioè “disabilitate”, rese non abile dal contesto costruito a misura di cittadini “normodotati”.

Sempre in inglese, la discriminazione nei confronti delle persone disabili si chiama ableism – termine più diffuso negli ambienti statunitensi – o disableism – più usato nel Regno Unito – e ha cominciato a diffondersi alla fine degli anni ottanta. In Italia si usa il termine abilismo.

Considerare le persone con disabilità modelli da emulare perché sono riuscite a realizzare i loro obiettivi nonostante la loro condizione è inspiration porn

Un esempio concreto di abilismo sono le barriere architettoniche di cui sono piene le nostre città costruite a misura di individui in grado di spostarsi, percepire, ragionare in un certo modo che è sempre e solo quello della maggioranza “abile”. Sono delle manifestazioni di violenza abilista le aggressioni fisiche e verbali contro le persone disabili, così come lo è offendere una persona usando una terminologia inerente al mondo della disabilità, per esempio “sei un handicappato, un down”, eccetera.

Periodicamente le notizie di cronaca denunciano poi episodi di violenze vere e proprie, come quelle avvenute in una struttura residenziale per ospiti disabili a Palermo, o di aggressioni come quella subita dalla ragazzina con disabilità picchiata da un gruppo di coetanee a Roma, o ancora i casi di maltrattamento di persone disabili da parte del loro caregiver familiare. E qui, anche se la responsabilità è sempre individuale, la situazione va contestualizzata. In Italia i servizi residenziali per persone con disabilità e anziani non autosufficienti soffrono di una cronica scarsità di operatori – pagati meno rispetto a ruoli che hanno mansioni simili nel settore ospedaliero – e di un elevato turnover. Il ruolo di caregiver familiare è svolto soprattutto da donne che talvolta hanno anche un lavoro fuori casa, oppure che sono state costrette ad abbandonarlo. Da anni attendono una legge che li tuteli.

Anche la difficile inclusione degli studenti disabili, minata da criticità del sistema scolastico ormai diventate strutturali, è una forma di discriminazione. Come pensare che la scuola possa educare i giovani alla rispettosa convivenza e alla valorizzazione delle differenze se è la prima a non garantire a tutti pari opportunità?

Ma esiste una forma di abilismo più subdola, cioè la tendenza a definire le persone unicamente in base alla loro disabilità, ritraendole in modo stereotipato e connotando la loro diversità con un senso di inferiorità. Questa forma di abilismo la illustra molto bene l’australiana Stella Young, comica, giornalista e attivista per i diritti delle persone con disabilità e lei stessa donna con disabilità. Durante il suo intervento all’interno di una conferenza TedX, ha raccontato un episodio che le è successo durante la sua carriera come docente di diritto in una scuola superiore. Un giorno, circa venti minuti dopo l’inizio della sua lezione, uno studente ha alzato la mano e le ha chiesto: “Ehi, signorina, quando fa il suo discorso motivazionale? Di solito le persone in sedia a rotelle come lei, quando vengono a scuola, parlano di roba motivante”.

Quel ragazzo non riusciva a riconoscerle il ruolo di docente di diritto perché era stato abituato a pensare che le persone disabili non potessero essere nient’altro che maestre di vita. Considerare le persone con disabilità fonti di ispirazione o modelli da emulare perché sono riuscite a realizzare i loro obiettivi nonostante la loro condizione è ciò che Young definisce inspiration porn. Chi riesce a convivere con la disabilità dev’essere per forza un supereroe o una supereroina.

Discriminazioni multiple
Anche se nei contenuti il ddl Zan è complessivamente forse ancora un po’ troppo sbilanciato verso un paradigma di giustizia di tipo sanzionatorio (anche a livello mediatico l’attenzione si è focalizzata più sulle pene da infliggere che sulle proposte di giustizia riparativa), sicuramente è stato però l’occasione per parlare della discriminazione contro le persone disabili e darle un nome.

Il mondo della disabilità ha però risposto tiepidamente. Le reazioni si sono limitate a pochi articoli (per esempio quello scritto dal centro di documentazione Informare un’H), alcuni post sui social, tra cui quelli di Uildm e Sensibilmente, sparute dichiarazioni alla stampa rilasciate a titolo personale da qualche esponente delle associazioni e la voce di qualche attivista. Complessivamente è mancata una presa di posizione unitaria e compatta da parte dell’attivismo delle persone con disabilità.

Questo fa riflettere perché dimostra come le minoranze non sappiano ancora ragionare in una prospettiva intersezionale, non capendo che le loro identità – messe ai margini dalla maggioranza abile, eterosessuale e cisgender – sono intrecciate e non giustapposte. Essere una donna disabile è più stigmatizzante di essere una donna “abile” o un uomo disabile. Essere una donna lesbica o trans con disabilità ha un impatto ancora più grande. Inoltre l’essere donna è condizionato dall’essere una persona disabile e viceversa, come anche essere lesbica o trans condiziona il proprio modo di vivere la femminilità e la disabilità.

Il messaggio politico e culturale di cui il ddl si fa portavoce dovrebbe dunque interessare molto alle persone disabili perché le loro identità minoritarie – l’essere donna, trans, disabile, omosessuale – non sono blocchi monolitici ma si influenzano a vicenda.

Il mondo della disabilità, salvo rare eccezioni, sta dimostrando di non saper andare più in là del suo naso, dimenticando pure una fetta dei “suoi”, ovvero le persone lgbt+ con disabilità che sono vittime di discriminazioni multiple, esattamente come le donne disabili. Perché le discriminazioni non si sommano, si moltiplicano.

L’obiettivo della proposta di legge e del dibattito che ne è scaturito non era circoscrivere delle categorie di discriminati ma individuare assi di discriminazione. L’uso discriminatorio del potere esercitato dalla maggioranza “normale” colpisce trasversalmente tutte le minoranze e per questo andrebbe contrastato unendo le forze.

L’attivismo delle persone con disabilità sembra non essere ancora riuscito a ragionare in termini di intersezionalità e questo rischia di accorciare la sua visione e di indebolire il potere trasformativo delle sue azioni.

Il potere che la maggioranza “normale” esercita a tutti i livelli è quindi abilista oltre che sessista, razzista e omofobo. Il ddl Zan, in quanto legge, interviene sui comportamenti individuali ma è l’intero sistema a essere discriminatorio, perché non considera le persone disabili come una risorsa per la collettività ma solo come un costo da ridurre.

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