09 febbraio 2006 00:00

Sono a Madrid, seduto nella cucina del ristorante di Sergi Arola, La Broche. Lui indossa una maglietta sbiadita e racconta scherzando che ha cominciato a cucinare solo per poter comprare l’attrezzatura per il suo gruppo rock. Non accenna neanche al fatto che il suo ristorante si è guadagnato due stelle sulla guida Michelin.

Appesa al muro c’è una lavagna verdina, coperta di scritte fitte e di tabelle ordinate e precise, come nell’aula di un corso di fisica. È il menù. Il nostro tavolo è proprio davanti al bancone dove si preparano i piatti. Ci sono 16 cuochi e 16 camerieri che servono ai tavoli. Il ristorante ha 32 coperti.

Tanto per farci venire l’acquolina in bocca ci portano pane, olio e tre tipi di sale: uno nero alle olive, uno marrone affumicato e uno rosa e piccante. Ognuno ha più il sapore del suo colore che quello del sale. Poi arriva un tagliere di vetro con sopra una caramella di crema di foie gras e una cucchiaiata di caramello che brilla come l’ambra. È l’equivalente di un cioccolatino belga di prima qualità, solo che è salato.

È anche l’introduzione allo sconcertante sovraccarico sensoriale che seguirà con le successive dieci mini-portate. Quando metto in bocca un cucchiaio di minestra di castagne accompagnata da gelato al bacon, mi viene voglia di mettermi a ridere dalla felicità. Passata la prima infanzia, nella vita ci sono pochissime opportunità di provare una sensazione veramente nuova. È una gran goduria.

La delicata precisione del cibo è quasi inimmaginabile. Le sardine affumicate sono accompagnate da un croccante uovo fritto: è il tuorlo di una Bantam – una gallina nana – avvolto in una speciale pasta sfoglia, che si sbriciola al primo tocco.

L’abilità necessaria a separare il tuorlo, e poi ad avvolgerlo e friggerlo, è sconvolgente. Ciononostante il cibo non è volutamente complicato. Anzi, in un certo senso è quasi rustico. Salsiccia di maiale e vitello con fagioli cannellini, risotto al formaggio basco Idiazábal: è come se la cucina casereccia spagnola fosse stata concentrata, affinata e ridotta alla pura essenza.

Qualche ora dopo, finito il nostro concerto, Sergi sta chiacchierando nel camerino con Bob, il nostro bassista. Lo chef si tira su la manica della camicia per mostrare orgogliosamente il tatuaggio di un basso Rickenbacker. “Oh, è proprio come il mio”, dice Bob. Cerco d’immaginare Bob che si tira su la manica e sfodera un paio di stelle Michelin tatuate sul braccio. Non ci riesco.

Internazionale, numero 628, 9 febbraio 2006

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