30 giugno 2014 09:00

Sono stata a Fes, in Marocco, per un festival di musica sacra. Ero con due amiche: Simone Bitton, regista ebrea nata in Marocco e residente a Parigi, e Leila Shahid, ambasciatrice palestinese a Bruxelles. Il festival commemorava Nelson Mandela e il tema di uno dei dibattiti era: “Può esserci un Mandela in Medio Oriente?”. Io e le mie compagne di viaggio l’abbiamo trovato discutibile. Come ha notato Leila, il titolo implicava che la colonizzazione fosse giustificata dall’assenza di un Mandela, ma sono i popoli a fare le rivoluzioni, non gli individui.

Simone voleva farmi conoscere la storia della diaspora ebraica in Marocco, che fortunatamente non si è conclusa con l’annientamento (ma forse anche perché la maggior parte degli ebrei ha lasciato il paese). Ho capito fino a che punto l’orientamento filoccidentale di Israele ha distrutto la cultura della comunità, antica di duemila anni. Leila voleva mostrarmi che la coesistenza tra arabi ed ebrei è possibile, e quanto può essere ricca.

Il primo giorno siamo andate al cimitero ebraico, dove sono sepolte dodicimila persone. Alcune sono parenti di Simone. Lì mi hanno convinta a fare qualcosa che non avrei mai immaginato. Ho acceso una candela davanti alla tomba di uno

zaddiq (santo) ebreomarocchino del seicento, Yehuda Ibn Attar. Leila ha spiegato il perché al custode: “Accendiamo una candela in memoria dei familiari di Amira morti nell’Europa nazista, perché non conosciamo il luogo della loro sepoltura”.

Traduzione di Andrea Sparacino

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