13 novembre 2019 13:09

Questo articolo è uscito su 1989, il nuovo numero di Internazionale extra sulla caduta del muro di Berlino e la fine dei regimi comunisti. Si può comprare in edicola, in libreria e online.

Un trentennale non è una ricorrenza qualsiasi. Segna il tempo di una generazione. Vuol dire che i ragazzi nati dopo il 1989 – dopo la caduta del muro e dei regimi comunisti dell’Europa centrorientale – sono gli adulti di oggi. E significa anche che i loro figli conosceranno il mondo della guerra fredda solo attraverso i racconti dei nonni. Un’altra epoca, insomma. Eppure l’Europa, e in qualche misura il mondo intero, sono il prodotto di quei cambiamenti e dei meccanismi che hanno messo in moto o contribuito ad accelerare.

Ma quelle trasformazioni si possono definire rivoluzioni? Probabilmente no, se sulla scorta dell’esperienza sovietica del 1917 per rivoluzione s’intende un processo di sovvertimento della società guidato da un’avanguardia politica rappresentata da una struttura rigidamente organizzata. Il partito, insomma. Ma certamente sì, se si pensa a una repentina e radicale riorganizzazione di un sistema di potere grazie alla mobilitazione dei cittadini. Soprattutto, però, il 1989 è stato il superamento di un modello autoritario – anzi, di diversi modelli autoritari – nel nome di una ricostruzione morale che nasceva come esigenza dell’individuo. “La responsabilità del singolo verso il tutto e per il tutto”, scrive Václav Havel nel Potere dei senza potere: l’esatto opposto dello stato di sdoppiamento morale e frustrazione in cui erano sprofondati i regimi socialisti.

Quello slancio di libertà e impegno contribuì alla nascita di un nuovo assetto istituzionale e gli diede legittimità politica ed etica. Le trasformazioni del 1989 ebbero però anche una dimensione puramente nazionale. Diversi osservatori denunciarono i rischi di un ritorno del nazionalismo, ma quelle paure furono cancellate dalle promesse di benessere e dall’euforia degli anni novanta. Poi, dieci anni dopo, gli europei dell’est hanno capito che l’Europa in cui si erano integrati non era quella che ricordavano o che avevano osservato, meglio immaginato, da oltre cortina. Era un universo più complesso, per certi versi perfino incomprensibile.

È allora che l’identità nazionale è tornata a galla come collante politico, portando all’affermazione dei regimi populisti e illiberali. A questo punto è inevitabile chiedersi se una frattura tra l’Europa occidentale e la nuova Europa esista ancora. La risposta può essere affermativa, a patto però di riconoscere che nel vecchio continente quella linea di faglia non è l’unica. Altre ne esistono, tra i paesi del nord e quelli del sud, e perfino all’interno dei singoli stati. Certo, molte aspettative degli europei dell’est sono state travolte dalla brutale realtà della transizione e di privatizzazioni eseguite più in fretta che con rigore o equità. E oggi si assiste a una chiara erosione dello stato di diritto, soprattutto in Ungheria e Polonia, e a una perdita di fiducia nella democrazia rappresentativa. Ma in fondo molti di questi problemi riguardano anche l’occidente.

Forse la cura di cui ha bisogno l’Europa, a ovest come a est, è la stessa: un sussulto morale e politico, una nuova assunzione di responsabilità verso la collettività, un investimento nella sostanza e nei princìpi della democrazia e della libertà, una riscoperta della solidarietà. Orizzonti e obiettivi che molti degli articoli selezionati per questo volume avevano già individuato con chiarezza una trentina d’anni fa.

Questo articolo è uscito a pagina 5 di 1989, Internazionale extra n. 10.

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