05 febbraio 2013 14:11

La Bolla di nebbia è insidiosa e maledetta. Uno se la trova davanti all’improvviso. Sono quasi certa che anche a voi è capitato di incontrarla – ma probabilmente le date un altro nome – e che vi innervosisce quanto innervosisce me.

Chiamo Bolla di nebbia il vuoto lattiginoso che qualche volta mi si apre in testa mentre comincio a lavorare, e a volte mentre già sto lavorando, su un’idea che fino a un nanosecondo prima mi sembrava buona. Questa mattina, per esempio, ho ripreso in mano gli appunti che mi ero fatta per il post di Internazionale, li ho riletti e… puff: nebbia. Svanite le logiche. Svanito il senso. Sono rimasta per dieci minuti a guardare lo schermo del computer, ciancicando con un paio di incipit più mosci di una vongola stantia, delusa come un pupo a cui è scoppiato in mano il palloncino.

Non importa quanto uno è esperto. In qualsiasi fase di un lavoro che non sia puramente meccanico può capitare di perdere la direzione e inchiodarsi. È un incidente di percorso sul quale si sono consumati infiniti drammi. La prima cosa da sapere è che si tratta di un fatto normale, che capita a (quasi) tutti. La seconda è che accanirsi non solo non serve ma, anzi, peggiora le cose.

Vi scrivo qui sotto in sintesi, e per punti, quel che ne so e ho capito.

1) La parola “ispirazione” viene dal latino

in-spirare: soffiare dentro. Per la mitologia classica l’ispirazione – il respiro del dio che provoca l’estasi poetica – fa capo alle Muse guidate da Apollo. Per la cultura ebraica è soffio divino. Dunque, per definizione, qualcosa di incontrollabile e diverso da noi. Ce ne appropriamo agli inizi del novecento, ma solo per scoprire che continuerà a sfuggirci: Freud dice che è un’espressione dell’inconscio e che scaturisce dal disagio. Jung dice che è un momento di contatto con gli archetipi, le metafore depositate nell’inconscio collettivo. Insomma, tutta roba che non si può governare.

2) I processi creativi, dai maggiori ai più piccoli e quotidiani, si sviluppano in maniera ricorrente. Schematizzando: c’è una fase di preparazione e raccolta dei dati di base. È consapevole e guidata dal pensiero logico, ed è indispensabile (dal niente non si inventa niente): perciò quel secchione di Thomas Edison, il quarto inventore più prolifico della storia (1.193 brevetti depositati) diceva che “creativity is ninety-nine per cent perspiration, one per cent inspiration”. E c’è una fase di elaborazione inconscia nella quale i dati si riordinano e si connettono, fino a costruire un discorso, una teoria, o un progetto nuovo. Quell’un per cento di ispirazione è il lievito potente e instabile che trasforma l’andirivieni tra pensiero consapevole ed elaborazione inconscia in qualcosa che ha senso, e che può dar luogo a uno o a molti insight (il termine che definisce l’illuminazione creativa).

4) L’unico modo per negoziare con l’ispirazione è accettarne la natura ondivaga e godersela, quando c’è, abbandonandosi al compito invece di cercare di dominarlo, come suggeriscono la psicologa statunitense Mary Henle, che parla di detached devotion, e lo psicologo croato-statunitense Mihaly Csikszentmihalyi, che invita a immergersi nell’esperienza ottimale del flow, il flusso, in questa bella Ted conference.

5) Ma quando l’ispirazione svanisce nella fetida bolla di nebbia? La soluzione migliore e più economica è riconoscere che svanire è un suo diritto e fa parte della sua natura. E poi: mollare il colpo e fare qualcos’altro. Va bene camminare, farsi una doccia, pelare le patate, guidare, ma non nel traffico e non velocemente. Se uno cammina o pela le patate o, insomma, svolge un compito poco impegnativo, l’attività (lo stato di

arousal) di certe parti del suo cervello che governano il pensiero logico razionale (tipicamente: la corteccia prefrontale) diminuisce, e lui entra in uno stato di confine in cui le analogie si sostituiscono alle normali funzioni logiche, e possono tornare a cortocircuitarsi in un’intuizione ispiratrice.

Per questo stamattina me ne sono andata al parco Sempione. Letteralmente: per snebbiarmi camminando.

6) Va anche benissimo dormirci sopra. O andare al cinema. Qualche volta, a me è servito raccontare a qualcuno i motivi per cui non riuscivo a venire a capo di qualcosa: il fatto di metterli in ordine nel racconto ne cambia la prospettiva e aiuta ad acquisire un punto di vista più distaccato. Se è possibile, un ottimo modo per uscire dalla Bolla di nebbia è sospendere il lavoro. Abbastanza a lungo da dimenticarsene e da poterlo riguardare con “occhi nuovi”.

7) In conclusione: tutti abbiamo le nostre Bolle di nebbia. L’unico vantaggio dell’esperienza è che si impara questo: non le si può combattere direttamente. E che, a volte, sospendere un lavoro del quale non si riesce a venire a capo per fare qualcosa di piacevole e lieve è un modo sì controintuitivo, ma efficace, di continuare a lavorare.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it