03 giugno 2014 17:23

Dash e Dixan. Nike e Adidas. Twitter e eBay, Wikipedia e Amazon. Toblerone e Nutella. Greenpeace ed Emergency. Se dico il nome sapete subito di che si tratta.

Non solo: ciascuno di questi nomi, che probabilmente vi sono familiari, evoca in voi un complesso di attese, percezioni, opinioni, ricordi, immagini. Soprattutto ciascuno suscita, debole o forte, positiva o negativa, un’emozione. Non mi stanco di ripetere che le emozioni sono fondamentali: guidano a capire, a proteggersi, a imparare, a ricordare, a decidere.

Comunque, tutto comincia con un nome la cui forma, il cui suono già dicono qualcosa. Lo conferma il sorprendente effetto Bouba-Kiki: guardate come funziona e fatevi il test. Poi, magari, provate a pensare a quale, tra Dash e Dixan, potrebbe corrispondere a Bouba e quale a Kiki. E com’è fatto un nome commerciale o istituzionale che funziona? Luisa Carrada ricorda che deve distinguere, esprimere l’essenza, raccontare, far desiderare.

Deve anche essere facile da pronunciare e avere un buon suono, dev’essere semplice da memorizzare, sufficientemente diverso dai nomi dei concorrenti e abbastanza affine ai codici propri della merceologia (e notate che non sempre i codici merceologici sono intuitivi: c’è un profumo, notissimo che si chiama Opium, e un altro che si chiama N°5. C’è un Tabu, un Arpège, un Giorgio, un Red Door, un 24 Faubourg, un Dolce Vita, un Black Cashmere, un Kokorico, un Insolence e un Egoïste…).

Sì, i nomi dei profumi sono un mondo a parte, e un profumo può perfino chiamarsi Untold (indicibile, taciuto, non detto). Ma di norma il nome di un prodotto non deve essere ambiguo o avere connotazioni negative: oggi nessuno più chiamerebbe Sasso un olio d’oliva, anche se quello è il cognome dei proprietari, o Ragno un’azienda che produce biancheria intima, anche se il ragno è un bravissimo animale tessitore. Ma si tratta di nomi storici e ormai noti, e va bene così.

E ancora: se il nome si propone sul mercato internazionale non deve avere connotazioni o assonanze negative in alcuna lingua.

Business Insider offre consigli per trovare un buon nome per un prodotto (anzi, esageriamo: un killer brand) e invita a diffidare dei comitati e dei focus group: rischiano di allinearsi sul minimo comun denominatore e di orientare la scelta sulle soluzioni più deboli. Dà consigli anche Forbes, riferendosi però alle piccole imprese: e infatti suggerisce di chiedere in primo luogo idee ad amici e familiari.

Grandi o piccole che siano le vostre ambizioni, prima di cominciare a ragionare su un nome leggetevi i dieci errori da non fare secondo Interbrand, con particolare attenzione all’errore numero otto (pensare che qualsiasi offerta abbia bisogno di un nome).

Se volete entrare nel merito dell’invenzione di un nome, potete guardarvi questa presentazione: sono d’accordo su diverse cose ma, per esempio, il fatto che le singole lettere P, T e K siano mascoline e le lettere L, M e N siano femminili mi sembra, nonostante l’inoppugnabilità dell’effetto Bouba-Kiki, piuttosto esoterico: la percezione generale dipende anche dal resto delle lettere che compongono il nome, dai caratteri con cui è scritto, dal contesto in cui viene usato e così via. Per chiarirvi le idee, guardate anche i tipi di nome elencati in questa pagina di Wikipedia.

All’inizio è stata big pharma, l’industria farmaceutica internazionale, a dare un grande impulso alla produzione professionale di nomi: i nomi commerciali dei farmaci devono corrispondere a specifici requisiti di legge e trovarne di nuovi è un’operazione non banale.

Ma oggi inventare un buon nome solido, efficace e registrabile (cioè non simile o uguale ad altri già depositati) per un prodotto, un’impresa, un’offerta, un’iniziativa è una faccenda più complicata che in passato, e può essere comunque meglio rivolgersi a un professionista.

A proposito di registrazione: vi segnalo che, se il nome ha ambizioni commerciali e deve durare a lungo, proteggerlo è necessario e conviene depositarlo subito presso la camera di commercio o l’ufficio brevetti. Così, il nome diventa un marchio registrato.

Una serie di pagine chiare e ben scritte (evviva!) sul sito del ministero per lo sviluppo economico spiega come fare: non è difficile. In Italia oggi si registra (e si brevetta) troppo poco. Lo ripeto: se si pensa di investire su qualcosa che ha un nome, registrare è una buona idea.

Ulteriore complicazione: se si vuole essere in grado proporre l’impresa o il prodotto in rete, e far sì che sia facile da trovare, il nome deve anche poter corrispondere a un dominio, cioè all’indirizzo di un sito web.

Anche per la rete è registrata un’impressionante quantità di nomi e trovare una soluzione può non essere semplice, specie se si vuole usare un dominio di primo livello come nuovonome.it, nuovonome.com oppure nuovonome.org.

Considerate, per esempio, che nel dicembre 2013 tutte le 456.976 possibili combinazioni di quattro-lettere.com risultano già registrate. Da Mashable, questa e altre informazioni interessanti sui domini e la loro storia.

Esistono diversi siti – per esempio Register - che permettono di registrare domini web e, prima, di controllare se un nome è disponibile. Se cercate “registrazione domini” con Google potete trovare chi offre questo servizio e confrontare le offerte.

Nella mia vita ho battezzato un discreto numero di cani e gatti (tutti con nomi geografici: per esempio, Elba è una gatta bianca, Sahara una cagnolina con un po’ di sangue rhodesian, Dover è un bel lupotto), ma mi è anche capitato più volte di creare nomi per prodotti e aziende (il più noto è Wind, la compagnia telefonica).

Sbaglierò, ma continuo a lavorare con carta, penna, dizionari, mappe e un sacco di altra roba antiquata e a diffidare delle liste di nomi generate con l’aiuto del computer: vengono fuori dei wordoid (potremmo tradurre con “paroloidi”) che magari suonano anche bene e hanno perfino le consonanti del sesso giusto, ma hanno tutti un vago retrogusto medicinale.

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