28 settembre 2015 12:37

L’installazione-simbolo del London design festival 2015 che si è concluso il 27 settembre è un pilone dell’energia elettrica pesante quindici tonnellate, piantato a testa in giù, visibile dall’aereo e dal Tamigi e messo sbilenco sopra una strada, mi auguro, non di frequente passaggio.

Leggo qualche spiegazione: si tratterebbe di un’installazione “sorprendente”, che vuole celebrare la precedente vocazione industriale del sito e il suo sviluppo residenziale (15mila nuove abitazioni) prossimo venturo. Ma non resto convinta. Anzi, mi frulla per la resta un pensiero acido e passatista: “E vabbè, che c’entra ‘sta roba col design?”.

E pensare che quattro anni fa il medesimo London design festival aveva lanciato un concorso per riprogettarli, i piloni dell’energia elettrica: un segno territoriale pervasivo, il cui aspetto è rimasto sostanzialmente immutato dagli anni venti del secolo scorso. Qui, raccolte dalla Bbc, potete vedere alcune proposte. Qui i finalisti. A vincere è stato il pilone a forma di T.

Il design è una cosa meravigliosa: dà valore, senso e piacevolezza agli oggetti. È un elemento competitivo strategico per le imprese perché può rendere unici e più desiderabili i prodotti. Ci migliora la vita aggiungendole comodità e bellezza. È un’espressione importante della cultura materiale, e come tale testimonia ed esprime lo spirito del tempo.

Certo: il design può anche avere un lato ludico. Ma credo che non possa, in contraddizione con quanto hanno affermato generazioni di maestri, darsi l’obiettivo primario di essere “sorprendente”, e credo che non possa darselo a prescindere dalla (o addirittura a scapito della) funzione dell’oggetto progettato: dunque, che c’entra l’installazione-simbolo con la manifestazione simboleggiata?

Le invenzioni di Munari

E a questo punto il pensiero acido e passatista si precisa: forse è solo una questione di visibilità mediatica, da conquistarsi anche a costo di tradire i criteri fondanti della disciplina. Proprio il desiderio esasperato di rimbalzare sui media (oggi condiviso, va detto, da diverse espressioni della creatività applicata tra moda, pubblicità, architettura) potrebbe spiegare, per esempio, il progetto dello stravagante televisore a forma di i maiuscola sbeffeggiato da Wired.

E allora, in onore del design, mi viene voglia di raccontarvi tutta un’altra storia.

“Il designer produce per il consumo a lungo termine”, dice Bruno Munari nel corso di una lezione all’università di Venezia. E aggiunge: “Mi sono permesso di dare il Compasso d’oro a ignoti. Autori che non sanno nemmeno di essere designer, ma producono oggetti che si vendono sempre: la sedia a sdraio da spiaggia, che più semplice di così non si può fare. O il leggìo a treppiede dell’orchestrale”.

Il Compasso d’oro è un prestigioso premio di design, ma il “Compasso d’oro a ignoti” è un premio inventato. Tuttavia negli anni settanta Munari lo assegna effettivamente pubblicando su Ottagono e su Domus, due riviste di grande reputazione, oggetti che del buon design hanno le caratteristiche: semplicità, funzionalità, uso adeguato dei materiali.

Sono oggetti che restano identici a se stessi nel tempo, e che difficilmente potrebbero essere migliorati. Quattro di questi sono celebrati da una serie di francobolli emessa dalla Repubblica di San Marino.

Alberto Bassi, storico del design e docente all’università Iuav di Venezia, pubblica diversi anni dopo un libro intitolato Design anonimo in Italia: settanta oggetti, dal fiasco per vino alla sedia chiavarina, dal cappello Borsalino alla coppola, alla caffettiera Bialetti. Qui potete vederne alcuni. “La lezione ‘anonima’ merita oggi di essere ripensata: essere, progettare e produrre senza vanità, inutili esibizionismi, senza per questo escludere emozione, passione e altre nuove qualità (necessarie o superflue che siano) delle merci”, scrive Bassi.

Nella rassegna c’è un apparente paradosso: i nomi degli autori di alcuni degli oggetti sono più che noti. C’è perfino la bottiglia del Campari Soda disegnata da Fortunato Depero. Eppure, la totale assenza di narcisismo progettuale delle cose selezionate le accomuna: diventano, dice Bassi, “super oggetti”, necessari e permanenti. E, per esempio: su quante scrivanie si trova da decenni, identica, quella meraviglia di funzionalità che è la cucitrice Zenith?

Un criterio analogo sembra guidare la selezione di “Classici del design quotidiano” a cui il Guardian ha dedicato, nel corso di tre anni, una meravigliosa serie di sessantaquattro articoli: qui li trovate tutti raccolti, in ordine inverso. Dategli almeno un’occhiata: questi la visibilità mediatica di sicuro non se la sono cercata, eppure se la meritano davvero.

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