12 novembre 2018 12:57

Paola Caridi è una donna acuta, curiosa e generosa. È anche una storica e una scrittrice esperta di Medio Oriente e Nordafrica. Il suo blog si chiama Invisible arabs, gli arabi invisibili. Caridi è appena tornata da Algeri e mi sta raccontando quel che ha visto lì. “Ferma, ferma”, le dico, “questa è una storia interessante. Fammi prendere qualche appunto”. Così, una chiacchierata tra amiche si trasforma in questa intervista.

Dunque, siamo ad Algeri.
Siamo all’inizio della periferia a est di Algeri, dalla parte opposta alla casbah, vicino a un’enorme moschea in costruzione. È la grande moschea d’Algeria, realizzata da un’impresa di costruzioni cinese su progetto tedesco. Il minareto è già finito: è alto 240 metri e si vede dall’altra parte della città. Sarà la più grande moschea d’Africa.

Lì vicino c’è la fiera di Algeri, un gruppo di grandi edifici beige dove, in occasione del Salone del libro, centinaia di migliaia di persone arrivano da tutto il paese: sono studenti delle scuole, famiglie con bambini, moltissime ragazze.

Il 10 novembre, dopo 12 giorni di fiera, gli organizzatori dichiarano questa cifra iperbolica: due milioni e duecentomila visitatori, mezzo milione in più dell’anno precedente. Sono numeri importanti perfino se paragonati con quelli dell’imponente e più antica Fiera internazionale del libro del Cairo, una tra le maggiori manifestazioni librarie del mondo. Però l’area metropolitana del Cairo da sola fa venti milioni di abitanti.

Tutto ciò vuol dire (faccio il conto) che ad Algeri arrivano più di 15 volte i visitatori del Salone del libro di Torino, in un paese dove (trovo il dato del 2015) ci sono meno di 40 milioni di abitanti. Come è possibile?
Anche se i visitatori fossero la metà, la cifra resterebbe enorme. Ma ha un senso. Bisogna sapere che fuori Algeri le librerie sono pochissime, e nei piccoli centri proprio non ne esistono: al massimo, c’è qualche negozietto che vende libri usati e ci sono persone di buona volontà che raccolgono libri da far leggere a chi non li può comprare.

Non c’è neanche la possibilità di comprare libri su Amazon, che non accetta la moneta algerina e in Algeria non vende direttamente: bisogna fare sponda sulla Francia, ovviamente pagando in euro.

Dunque, ogni anno i lettori di un’intera nazione si mobilitano e viaggiano fino ad Algeri in occasione del Salone del libro. Le persone mettono pazientemente da parte i soldi per comprare i libri che dovranno durare per l’intero anno successivo. Meglio precisare che, nonostante i nostri stereotipi, nessuno si sposta più in cammello. Tutti arrivano in auto, e si creano lunghe file in autostrada nei fine settimana. C’è gente che parte dal sud del paese e che per comprarsi i libri viaggia due giorni, dormendo in macchina.

Bisogna anche sapere che il libro è importante nella cultura algerina. È proprio l’oggetto in sé ad avere valore. È segno e strumento dell’ascesa sociale delle famiglie, perché gli algerini sono convinti che si legge e si impara per avere una vita migliore, e che i bambini devono crescere con i libri.

Dunque, anche se ormai tutti hanno il cellulare, e tutti i ragazzi hanno lo smartphone e si scattano raffiche di selfie, il libro è ancora un oggetto sacrale. Un talismano che serve ad appropriarsi della realtà.

Per questo il Salone del libro è considerato un evento di rilevanza e interesse nazionale, e si tiene durante il periodo di vacanza delle scuole, in occasione della Festa della rivoluzione, in modo che intere scolaresche, da ogni parte del paese, possano andarci.

Che cosa si vede al Salone?
Si vedono diverse cose rimarchevoli, e un intero mondo in divenire. E si vede l’intersezione tra la cultura e la politica estera. Vedi la produzione francofona africana, anzi, sbirci da Algeri l’intero continente africano.

Vedi mescolarsi tra gli stand tutte le anime dell’Algeria. Vedi l’anima islamista, che riconosci dalle copertine dei libri e dall’abbigliamento delle persone, intrecciarsi con l’anima laica. Vedi la lingua araba intrecciarsi con quella francese, e con l’inglese. Vedi un desiderio di lingua italiana e di scrittori italiani, che resta in parte insoddisfatto.

Il pubblico del salone del libro di Algeri, novembre 2018. (Paola Caridi)

Com’è la dinamica tra le diverse lingue, e come se la cava l’italiano?
Anche se il francese è la lingua delle élite, tutti un po’ lo masticano, e la stessa lingua araba algerina è una specie di grammelot che incorpora moltissimi termini francesi. Per questo vengono alla fiera anche tutti i maggiori editori di Francia. Ma ci sono anche tanti autori algerini, che pubblicano in lingua francese in Algeria: il passato coloniale è ormai lontano, e usare il francese non è più segno di sudditanza.

Al Salone c’è anche un bel po’ di inglese. Le maggiori scuole di lingua inglese hanno uno stand: i ragazzi le frequentano perché pensano che l’inglese li aiuterà a trovarsi un lavoro. E ci sono diversi editori anglosassoni.

L’italiano è la terza lingua straniera nelle scuole in Algeria. L’Italia è generalmente amata e non è accomunata alle ex potenze coloniali, e molti genitori dei ragazzi che oggi studiano l’italiano hanno lavorato in Italia nel passato, e ne conservano un buon ricordo. Non si può incontrare un gruppo di algerini senza che qualcuno dica “Ehi, in Italia io ci sono stato”.

Ad Algeri c’è un Istituto italiano di cultura dinamico, che organizza corsi di italiano molto frequentati e, per esempio, ha di recente organizzato la rappresentazione di Arlecchino servitor di due padroni con la compagnia del Piccolo Teatro di Milano.

Ci sono i lettori di italiano nelle università, ma manca l’opportunità di comprare libri italiani. Per esempio, tutti vorrebbero leggere Elena Ferrante, così come ai tempi leggevano Moravia, ma Ferrante non c’è. E questa è un’occasione perduta.

Dicevi: cultura e politica.
L’Algeria è da sempre considerata la porta culturale africana. Su mille editori e istituti di cultura presenti al Salone, 276 sono algerini, e tutti gli altri sono stranieri. Il mondo arabo è naturalmente molto presente.

Ma la Cina è arrivata in massa, con una delegazione ufficiale di 150 persone, portando il premio Nobel Mo Yan e molti altri autori. Ha fatto un grosso investimento, occupando un’intera sezione del salone, assai affollata anche perché sono state distribuite tele stampate in cinese e altri gadget. Questo ci dice che l’attenzione cinese non si rivolge solo all’Africa subsahariana.

Ci dice inoltre quanto ormai è diffusa l’idea che la cultura sia un eccellente strumento di promozione politica: è il soft power, il potere morbido. Noi, che ci scordiamo sempre di essere un paese assai più amato e seduttivo di molti altri, avremmo ottimi strumenti per esercitarlo, il potere morbido culturale, se solo non fossimo così distratti e ripiegati su noi stessi.

Quest’idea di persone che, letteralmente, attraversano il deserto per comprare libri mi sembra affascinante. Bisognerebbe farci un film.
La cosa curiosa è che il film più famoso in Algeria è italiano: è La battaglia di Algeri, di Gillo Pontecorvo, che viene trasmesso dalla tv pubblica algerina due volte all’anno nelle due feste nazionali, a novembre e a giugno. Un mito, in tutto il paese.

E sì, sarebbe da raccontare questa specie di pellegrinaggio culturale di masse di algerini che partono da posti lontanissimi per potersi portare a casa un prezioso tesoro di carta, che duri un anno intero. Immagina un lettore, o un gruppo di lettori, che parte all’alba da Tamanrasset, a quasi duemila chilometri a sud di Algeri, facendosi la Transahariana.

I visitatori girano assorti tra gli stand, stanno in fila per ore per scambiare due parole o farsi un selfie con gli autori, si caricano di libri e poi se ne vanno tutti fuori, a mangiare all’aperto il kebab algerino di carne di pollo, infilato non nel pane arabo ma in una baguette. Per i bambini, ci sono crêpe al cioccolato e zucchero filato. È una gran festa, molto antica e molto moderna. Peccato che noi proprio non ci siamo, e non sappiamo neanche che c’è.

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