03 ottobre 2021 09:48

Durante la guerra in Vietnam, un viceammiraglio della marina statunitense detenuto per più di sette anni in una prigione nordvietnamita notò una tendenza sorprendente tra i suoi compagni di cella. Alcuni sopravvivevano a condizioni di vita tremende, altri no. Quelli che non ce la facevano di solito erano i più ottimisti del gruppo. In seguito quel viceammiraglio, James Stockdale, avrebbe detto al saggista ed economista Jim Collins, “erano quelli che dicevano ‘Saremo fuori entro Natale’. E poi Natale arrivava e passava… E Pasqua arrivava e passava. E poi era la volta del Ringraziamento, e poi arrivava di nuovo Natale. E loro morivano di crepacuore”.

Tra i miei conoscenti ho notato una versione meno tetra di questo schema nell’ultimo anno e mezzo, mentre il covid-19 si trasformava lentamente da disagio momentaneo a nuovo modo di vivere. Quelli che hanno avuto più difficoltà sono stati gli ottimisti che continuavano a predire un ritorno alla normalità per poi restare delusi di fronte al trascinarsi della pandemia. Alcune delle persone che se la sono cavata meglio erano assolutamente pessimiste riguardo il mondo esterno, ma piuttosto che badare a ciò che accadeva fuori si sono concentrate su quello che avrebbero potuto fare per resistere.

Esiste una parola per indicare la convinzione di poter rendere le cose migliori senza distorcere la realtà: non è l’ottimismo, ma la speranza. Come ha scoperto Stockdale, e come ho scoperto anche io in un modo meno drammatico durante la pandemia, l’ottimismo spesso non è il modo migliore per accrescere il proprio benessere. Le ricerche dimostrano che la speranza è una forza molto più potente. Possiamo tutti migliorare sotto questo aspetto mentre cerchiamo di riprenderci dalla pandemia, e beneficiare per il resto della nostra vita di questa nostra nuova capacità.

Insieme ma non per forza
Le persone tendono a usare le parole speranza e ottimismo come sinonimi, ma questo non è corretto. In un saggio del 2004 pubblicato sul Journal of Social and Clinical Psychology, due psicologi hanno usato i dati di un sondaggio per analizzare i due concetti. Hanno stabilito che “la speranza si concentra in modo più diretto sul raggiungimento personale di obiettivi specifici mentre l’ottimismo si concentra in senso più ampio sulla qualità attesa di più generali sviluppi futuri”. In altri termini, l’ottimismo è la convinzione che le cose alla fine andranno bene; la speranza non fa questo genere di supposizioni, ma è piuttosto la convinzione che si possa agire per migliorare le cose in un modo o nell’altro.

La speranza implica un’azione personale, e i suoi legami con il successo individuale non dovrebbero sorprenderci

Speranza e ottimismo possono presentarsi assieme, ma non per forza. Si può essere disperatamente ottimisti, sentirsi personalmente indifesi ma presumere che alla fine tutto andrà per il meglio. O essere pessimisti speranzosi che fanno previsioni negative sul futuro ma hanno fiducia nel fatto di poter migliorare le cose nelle loro vite e in quelle degli altri.

Gran parte delle ricerche che hanno collegato l’ottimismo al benessere umano non mostra le distinzioni tra ottimismo e speranza. Separando i due concetti però emergono livelli diversi di benefici. Una ricerca pubblicata sulla rivista Psychological Reports ha dimostrato che nonostante sia l’ottimismo sia la speranza abbassino le probabilità di ammalarsi, in questo la speranza è più efficace dell’ottimismo.

Assenza disastrosa
Tenuto conto del fatto che la speranza implica un’azione personale, i suoi legami con il successo individuale non dovrebbero sorprenderci. In un rapporto pubblicato nel 2013 su The Journal of Positive Psychology i ricercatori, che hanno definito la speranza come “il voler fare qualcosa e trovare un modo per farlo”, hanno scoperto che i dipendenti con grandi speranze hanno il 28 per cento di probabilità in più di avere successo al lavoro e il 44 per cento di probabilità in più di godere di buona salute e sentirsi bene. Uno studio multilivello condotto su studenti di due università nel Regno Unito ha rilevato come la speranza, misurata in risposta ad autovalutazioni quali ‘perseguo con energia i miei obiettivi’, prediceva il successo accademico più dell’intelligenza, della personalità o anche dei precedenti successi.

La speranza è più di una “gradita presenza” per il benessere: la sua assenza è disastrosa. Da una ricerca del 2001 condotta su anziani messicani ed europeo-americani che parteciparono a un sondaggio effettuato tra il 1992 e il 1996, emergeva come il 29 per cento di quelli che i ricercatori avevano classificato come “senza speranza” in base alle risposte date ai questionari fossero morti entro il 1999, una percentuale che tra le persone speranzose scendeva all’11 per cento, perfino dopo aver aggiustato i risultati in base all’età e allo stato di salute riferito.

Alcuni potrebbero sostenere che avere speranza è soprattutto una questione di fortuna, ci devi nascere. Questo potrebbe essere in parte vero per l’ottimismo. Uno studio lo fa dipendere al 36 per cento dalla genetica. Che la speranza abbia o no un legame con la genetica (non ho visto alcuna misurazione in tal senso), la maggior parte delle tradizioni filosofiche e religiose la considerano una scelta attiva, se non un comandamento. È addirittura una delle virtù teologiche del cristianesimo. Implica un’azione volontaria, non semplicemente una felice predizione.

La suora e mistica cattolica Teresa d’Avila riteneva che la speranza derivasse dalla volontà e dall’impegno. Come ha scritto poeticamente nel sedicesimo secolo: “Spera, anima mia, spera… Pensa che quanto più lotterai, tanto più proverai l’amore che hai per il tuo Dio e tanto più un giorno godrai con il tuo Diletto, in una felicità e in un’estasi che mai potranno avere fine”. A prescindere dalla religione, possiamo tutti trarre un insegnamento dall’affermazione di Teresa e dall’impegno ad accrescere la nostra speranza in una vita migliore e nel futuro. I passi da intraprendere sono i seguenti.

Immaginate un futuro migliore, e individuate i dettagli che lo rendono tale.

Quando vi sentite un po’ senza speranza, cominciate a cambiare atteggiamento. Poniamo il caso per esempio che la città in cui vivete e che amate sia in difficoltà per il problema dei senza fissa dimora e un numero crescente di vostri vicini si sta ritrovando senza un tetto sulla testa. Potreste facilmente concludere che la situazione è senza speranza, ma potete fare di più per la felicità dei vostri vicini – e per la vostra – se immaginate una città in cui meno persone finiscono a vivere per strada e dove tutti hanno una migliore qualità della vita.

Non limitatevi a crogiolarvi al bagliore di una città fittizia, fate una lista degli elementi specifici che sarebbero migliori: per esempio, alloggi più economici, politiche pubbliche migliori, una maggiore attenzione all’abuso di sostanze e alla salute mentale.

Immaginate di passare all’azione

Se vi fermate al primo passo, convincendovi che verranno giorni migliori, vi sarete impegnati a essere ottimisti, ma non ancora speranzosi. Limitarsi a immaginare un futuro migliore non lo renderà tale. Può però essere d’aiuto al mondo quando modifica il nostro comportamento personale, facendoci passare dalla protesta all’azione. Il secondo passo di questo esercizio è dunque immaginare un vostro contributo plausibile alla realizzazione di un futuro migliore, sia pure a un livello micro.

Proseguendo con l’esempio di prima, immaginate di fare volontariato a un servizio di distribuzione di pasti un giorno alla settimana, di chiedere attivamente politiche migliori all’amministrazione della vostra città o di dare maggiore visibilità ai problemi delle persone che vivono la condizione di senza fissa dimora nella vostra comunità. Evitate l’illusione di essere degli invincibili salvatori. Immaginate piuttosto di poter aiutare una persona reale, convincere un singolo politico o aumentare la compassione di un solo concittadino.

Adesso, armati di speranza, potete fare il passo più importante.

Agite

Prendete la vostra grande visione di un futuro migliore e la vostra umile ambizione a farne parte in un modo specifico e comportatevi di conseguenza. Seguite le vostre idee per dare una mano a livello interpersonale. Raccomando di provarci con due o tre persone, perché la vostra prima idea potrebbe dimostrarsi insostenibile o poco realistica.

La vostra azione specifica potrebbe sembrarvi un esercizio futile, proprio perché così piccola. È la voce della disperazione che risuona nella vostra testa. Contrastatela con le parole di Teresa di Lisieux, la giovane suora francese del diciannovesimo secolo sostenitrice della “piccola via”. Sottolineava come la grandezza di un’azione non risieda solo nel suo impatto sul mondo ma nell’amore con cui la si compie. La vostra piccola via può cambiare il vostro cuore e forse contagiare i cuori di altri, soprattutto quando vedono l’effetto che la pratica della speranza e dell’amore ha su di voi.

Continuando a citare suore di nome Teresa, è stata forse madre Teresa a sintetizzarlo meglio di tutte: “Non tutti possiamo fare grandi cose, ma possiamo fare piccole cose con grande amore”.

Nel 1891 Emily Dickinson ha scritto che la speranza è qualcosa di non richiesto, su cui possiamo sempre contare:

La ‘Speranza’ è quella cosa piumata –
che si viene a posare sull’anima –
e canta melodie senza parole –
e non smette – mai –

Il sentimento di Dickinson è bellissimo, ma impreciso. Ad alcune anime fortunate capita che l’ottimismo si presenti senza essere stato invocato e si faccia da solo un nido. Per avere speranza invece dobbiamo fare noi un nido e spargere anche del gustoso becchime tutto intorno. Se ci impegniamo per attirarla e riusciamo a farla risplendere nel nostro cuore, non c’è canto più dolce in questo mondo stonato.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul sito del mensile statunitense The Atlantic.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it