16 ottobre 2005 12:44

Forse da qualche parte esiste una storia degli ebrei ungheresi del novecento: uomini di lettere e dissidenti politici, economisti e fisici nucleari. Immaginate il contesto: la società dei caffè nelle due città gemelle di Buda e Pest, la fine dell’impero austroungarico, la lotta tra bolscevismo e fascismo, le orribili immagini della Soluzione finale e la prima rivoluzione armata contro Stalin, tutto questo tramandato da una diaspora di persone molto brillanti e in buona parte mediato da una lingua che per uno straniero è quasi impossibile da imparare.

In questo ambiente il nome di Arthur Koestler, che era nato a Budapest il 5 settembre del 1905, fu uno dei più importanti. Oggi Koestler è ricordato per una pietra miliare della narrativa, il romanzo Buio a mezzogiorno, e per aver curato insieme a Richard Crossman Il Dio che è fallito, la grande raccolta di saggi antistalinisti scritti da una serie di intellettuali delusi. Ma scrisse anche un’immortale raccolta di memorie in cui raccontava le sue avventure e le sue esperienze in Unione Sovietica, la guerra civile spagnola, la divisione della Palestina e i dissidi intellettuali che caratterizzarono la guerra fredda fin dall’inizio.

Un altro veterano come lui, il tedesco Victor Klemperer, una volta usò l’espressione “popolo sismico” per definire i tormentati ebrei di quel periodo. Spesso si ha l’impressione che la vita di Koestler abbia registrato il novecento in anticipo su una scala Richter personale. All’inizio aderì al sionismo, ma poi lo mise da parte quando incontrò l’ideologia comunista, che gli sembrava più universale.

Assistette alla nascita del nazismo in Germania, andò in pellegrinaggio in Urss in un’epoca di purghe e carestie, e fu mandato in Spagna come agente del Comintern. Lì trascorse il primo di una lunga serie di periodi di reclusione. Dopo essere stato rilasciato in seguito a una campagna internazionale, divenne uno dei più brillanti propagandisti della causa comunista fino alla firma del patto tra Hitler e Stalin, che spezzò la molla che lo muoveva.

Fin dalla prima pagina di Buio a mezzogiorno ci si rende conto che la presa di coscienza quotidiana dell’avvicinarsi dell’esecuzione capitale è uno stimolo potente sia alla riflessione sia al fatalismo. Il personaggio principale di Koestler, Nicholas Rubashov, è modellato su quei vecchi intellettuali bolscevichi che durante i processi-spettacolo di Mosca alla fine degli anni trenta “confessavano” abominevoli crimini inventati. E poiché Koestler non aveva dimenticato quella dialettica, decise di mettere Rubashov di fronte allo stesso dilemma al quale lui stesso era sfuggito.

Che succede se un suo oppositore è ancora convinto che Stalin abbia torto dal punto di vista morale ma forse ha ragione da quello “storico”? Potrebbe decidere di firmare la confessione e sperare che un giorno la storia lo giustifichi. Il suo ultimo dovere nei confronti del Partito potrebbe, cioè, essere il suicidio.

Noi sappiamo, per esempio, che la confessione di Nikolaj Bukharin non è fu ottenuta così. Gli uomini di Stalin impiegavano strumenti di persuasione meno sottili. Ma non è detto che questo paradosso non fosse presente nella mente di Bukharin fino alla fine. Una volta che si accetta una certa logica della storia, come si fa a rinnegarla?

A parte il grande inquisitore di Dostojevskji, non esiste in narrativa un esempio migliore di interrogatore spietato che tortura la vittima con l’intenzione di salvare la sua anima. Rubashov ha un’unica fatale debolezza, che è quella dell’intellettuale aperto: “la familiare e fatale compulsione a mettersi al posto del suo avversario, e vedere la scena con i suoi occhi”. I suoi carcerieri non hanno lo stesso svantaggio. Questa differenza cruciale assume una rilevanza che va ben oltre il tempo e lo spazio di quella specifica ambientazione. Il più noto 1984 di George Orwell, che ha molti punti in comune con Buio a mezzogiorno, dimostra la stessa terrificante verità: i fanatici non si accontentano che gli si obbedisca, vogliono che si sia d’accordo con loro.

In tutto il romanzo Koestler si sforza di sottolineare la somiglianza tra totalitarismo e religione e di tracciare il conseguente parallelo tra dissenso ed eresia. Fu in effetti l’altro curatore, Richard Crossman, a suggerire il titolo Il Dio che è fallito per l’antologia che comprendeva ex comunisti come Ignazio Silone, Richard Wright e molti altri. Quel titolo è rimasto memorabile, ma un titolo anche migliore sarebbe stato L’altro Dio che è fallito. Per il resto della sua vita, Koestler oscillò tra varie forme di razionalismo e pseudoscienza. Era una di quelle persone così intelligenti e poliedriche che nessun argomento riusciva a tenere a lungo la sua attenzione.

La sua vita fu devastata dall’alcol e dalla passione per le donne. Verso la fine cominciò a flirtare con delle teorie legate al “paranormale”, pubblicando testi piuttosto assurdi. Fece una brutta fine: devastato dal Parkinson, si suicidò insieme alla moglie nel 1983. Ma lasciò una mole di lavoro che resterà sempre affascinante e stimolante per chiunque ammiri gli uomini di principio e ami la battaglia disinteressata delle idee.

*Traduzione di Bruna Tortorella.

Internazionale, numero 612, 14 ottobre 2005*

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