29 giugno 2021 15:48

“Alla fine dell’estate non ci arriviamo” scrive un amico in una chat collettiva in cui il desiderio di ricominciare come se tutto non fosse stato viene sfiancato dal caldo e dall’abulia di una stagione che mai come quest’anno genera le stesse ansie di rinnovamento del capodanno: dove andate, cosa fate, come state. Gli rispondo che è un bel titolo, buono per Franco 126, e invece mi sbaglio. Qualche ora dopo questo messaggio, sentirò la canzone perfetta per questa sensazione di loop e città esausta. Si chiama Spano, è di Spano, e anche l’album s’intitola così, in un minimalismo ripetitivo che si addice bene all’eleganza stordita del disco.

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Prodotto da Love Boat e Liza, è fatto da otto tracce “ballabili ma non ballabili”, di beat e chitarre che si comportano come se non appartenessero a universi musicali diversi, e perché mai dovrebbero? Spano si basa sulla fusione/confusione dei piani sensoriali e degli impulsi che dovrebbero arrivare a un organo preciso e invece ne colpiscono un altro. I suoni che hanno una temperatura cerebrale non vanno al cervello ma allo stomaco, quelli più apparentemente commoventi e malinconici non finiscono nel cuore ma nella testa. Non male per un progetto basato anche sulla disarticolazione delle due persone che lo compongono: il compositore Paolo Spaccamonti e il produttore Stefano “Fano” Roman invitano anche a dimenticarsi dei loro nomi. Dimenticare è qualcosa che capita ascoltando Spano, un disco così efficace da imporsi anche su una certa idea di estate in città, lasciando posto solo a un desiderio sfinito.

Questo articolo è uscito sul numero 1415 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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