“Tutti i partner maschili sono invitati ad accompagnare al reparto maternità le mogli che vengono a partorire”. Quando ho letto il cartello appeso all’entrata dell’ospedale del distretto di Mbooni, in Kenya, mi hanno attraversato la testa le immagini di centinaia di papà italiani che riprendono con la telecamera la nascita del loro figlio, che tagliano il cordone ombelicale, che piangono come fontane mentre tengono il loro neonato in braccio.

La partecipazione con cui i padri sono entrati nelle nostre sale parto negli ultimi decenni, ammettiamolo, rasenta l’invadenza. Perché con tutto quello che c’è da fare durante la nascita di un bambino, l’ultima cosa di cui c’è bisogno è un uomo grande e grosso con le lacrime agli occhi e il cellulare in mano. A quanto pare, però, a Mbooni hanno il problema opposto: tra le poche donne che scelgono di partorire in ospedale invece che a casa, sono ancora meno quelle che arrivano accompagnate dal marito. E praticamente nessuna ha la fortuna di averlo accanto in sala parto.

Fred, l’autista che mi portava in lungo e in largo per le strade di terra rossa di questo distretto a cento chilometri a est di Nairobi, mi ha detto che gli uomini lo fanno per rispetto: “Alle donne non piace farsi vedere in un momento così intimo e allora noi le lasciamo in pace”. “Gli uomini non entrano in sala parto perché hanno il terrore del dolore”, mi hanno invece risposto una dottoressa e una neomamma nel reparto maternità. Cioè, hanno paura del sangue? “No, no: proprio del dolore. L’uomo è debole, ha paura del dolore”.

Ecco qua, ero arrivato in Kenya da meno di ventiquattr’ore e già mi trovavo in mezzo al fuoco incrociato di una guerra tra Venere e Marte. Per capire com’ero finito in questa situazione, bisogna partire dall’inizio. Da quando, alle otto e mezza della sera prima, ero atterrato a Nairobi.

Circondato da un’orchestra di grilli assordante, interrotta solo dal rombo di aerei in arrivo e in partenza, osservavo con una certa ammirazione l’inedita scena che mi si presentava davanti: decine e decine di valigie erano sistemate per terra in una lunga serpentina mentre una fila ondulata di passeggeri con lo sguardo sui bagagli gli scorreva accanto, come se fossero loro a scivolare su un invisibile nastro trasportatore. Sotto ai miei occhi, all’aeroporto Kenyatta, stava avvenendo una rivoluzione copernicana del ritiro bagagli. Forse un anticipo del fatto che, durante la settimana che avrei passato in Kenya, avrei dovuto imparare a cambiare più volte il mio punto di vista.

Il terminal degli arrivi consisteva in una serie di grandi tendoni bianchi sparsi su un enorme spazio vuoto. Più che a un aeroporto somigliava a un campo profughi, tanto più che su ogni tendone spiccava orgogliosamente la scritta “donata dal popolo americano”.

Mentre guardavo la scena del ritiro bagagli senza nastro trasportatore, una ventata di odore di plastica bruciata mi ha innescato un improvviso flashback: “In fiamme l’aeroporto di Nairobi. Ancora ignote le cause”. L’avevo letto sul cellulare qualche settimana prima sotto l’ombrellone, uno dei tanti titoli su fatti drammatici avvenuti in paesi lontani che scorri via con un dito senza neanche soffermartici. E invece ora mi ritrovavo nel cuore di uno di quei fatti drammatici e lontani. Ne sentivo perfino l’odore. L’intero terminal degli arrivi dell’aeroporto Kenyatta era stato distrutto dalle fiamme e per il momento funzionava solo grazie a un enorme sforzo organizzativo e ai tendoni donati dal popolo americano.

Scoprire Nairobi di notte da un finestrino dell’auto mi ha messo una certa inquietudine. È una città buia, dura, brutta, che non fa nessuno sforzo per piacerti perché è troppo occupata a sopravvivere. Ma, oltre al timore, mi ha suscitato anche un certo rispetto. Era la mia prima volta a Nairobi. La mia prima volta in Kenya e la mia prima volta in Africa.

“Vai in Africa?”, mi rispondeva la metà delle persone a cui parlavo dei miei progetti, “Vedrai che ti piacerà tantissimo, la gente non ha niente ma sorride sempre”. “Vai in Africa?”, rispondeva l’altra metà, “Portati il gel disinfettante, prendi il farmaco per la malaria e non bere MAI niente che non sia stato stappato sotto i tuoi occhi”. Insomma, non mi era chiaro se stessi andando all’inferno o in paradiso.

Per il momento l’unica certezza era che, in un punto indefinito del mio lungo itinerario di volo tra Ginevra e Nairobi, ero diventato temporaneamente eterosessuale. E non tanto per rispetto delle leggi keniane contro l’omosessualità (per quella maschile si rischiano tra cinque e quattordici anni di carcere), quanto per puro interesse: il mio obiettivo era parlare con un po’ di uomini del posto e capire come stesse cambiando il loro ruolo di marito e padre, se avessero chiaro che la salute riproduttiva delle loro mogli riguarda molto anche loro.

Un’impresa non facile: già gli uomini in fatto di chiacchiere danno sempre poca soddisfazione - perché parlano meno, perché restano più sulla difensiva e perché, poverini, sono maschi - ma se poi gli avessi spiegato che sono sposato con un uomo e che abbiamo tre figli non avrei certo favorito la conversazione. Il mio nuovo orientamento sessuale si è fatto sentire quasi subito, quando una ragazza mozzafiato mi ha accolto nella guest house dove avrei passato la prima notte a Nairobi. L’ho trovata bella da morire. “Se qui le donne sono tutte così”, ho pensato, “questa sarà una settimana molto lunga”.

Se un giorno inventeranno la macchina del tempo, potrebbe somigliare a un grosso fuoristrada bianco che corre via da Nairobi verso la campagna. Lungo il tragitto per raggiungere il distretto di Mbooni, ho visto scorrere gli anni all’indietro nel finestrino: siamo partiti da una città infestata da traffico e cartelloni pubblicitari e siamo arrivati in villaggio dove la gente approda dopo aver camminato per chilometri per venire a vendere una capra al mercato.

Al di là di condizioni igieniche che per gli standard europei facevano rabbrividire, l’ospedale distrettuale era un bellissimo posto. Immerso nel verde, ben organizzato, sembrava un’isola di pace e di salvezza nel bel mezzo del nulla. Probabilmente perché era esattamente ciò che era.

Nel reparto maternità ho parlato con Irene. Aveva partorito il giorno precedente il suo primo figlio, Eric, ma suo marito non l’aveva ancora visto perché non era riuscito a liberarsi dal lavoro. Sarebbe arrivato di lì a poco, mi ha assicurato, e avrebbe sicuramente voluto tenere in braccio suo figlio. Insomma, sarebbe stato un quadretto non troppo drammatico, se non fosse per un dettaglio: Irene era poco più che una bambina. La sua età precisa non la so: calpestando ogni principio giornalistico non gliel’ho voluta chiedere. Perché ho avuto paura della risposta.

Di certo ho provato meno disagio a parlare con la sua compagna di stanza, Virginia, una di quelle donne super materne che emanano serenità. Mentre parlavamo, allattava al seno il suo quarto figlio. Neanche suo marito era ancora riuscito a passare, perché lavorava a Nairobi, troppo lontano. Nessuna delle due sembrava biasimare il proprio uomo per non essere lì accanto a loro e io non mi sentivo di dargli torto: se erano impegnati a lavorare come muli, come potevano permettersi il lusso di correre in sala parto per veder nascere il loro bambino? In Kenya diventare padre non dà diritto a neanche un giorno di ferie.

“Ma anche quando hanno la possibilità di accompagnare la moglie a partorire”, mi ha spiegato più tardi un’infermiera, “lasciano qui la moglie e se ne vanno”. “Il fatto è che gli uomini proprio non concepisce l’idea di andare a vedere il figlio perché nei parti in casa - che sono ancora la grande maggioranza - non assistono al parto e aspettano che qualcuna gli porti a far vedere il neonato. Per loro è il bambino che va dal padre, e non viceversa ”.

I parti in casa, mi è sembrato subito chiaro, sono il vero problema. Solo il venti per cento delle madri partorisce in ospedale, il resto lo fa in casa o dalla suocera. Ed è una faccenda da donne, completamente gestita dalle donne della famiglia, in cui il ruolo del padre è solo quello di portare la moglie in ospedale in casi di emergenza. “L’anno scorso non siamo riusciti a salvare una madre perché la macchina del marito è stata bloccata da un corso d’acqua in piena”, mi ha spiegato il direttore dell’ospedale di Mbooni. “Se avesse partorito qui sarebbe ancora viva”.

A mezzogiorno mi sono seduto a mangiare con il personale dell’ospedale nella piccola mensa all’aperto. Più che una mensa ospedaliera, aveva l’aria di un botteghino di gelati e latte di cocco su una spiaggia tropicale. Guardavo con un certo sospetto il mio piatto di fagioli e mais con mezzo avocado poggiato sopra. Saranno state lavate queste verdure? Ma al primo boccone è scomparso ogni timore: santo dio, ma allora è questo il sapore che hanno i fagioli! E il mais, croccante e gustoso, perfettamente amalgamato al resto grazie a un avocado dolce e cremoso. Quel misero piatto vegetariano era un’esplosione di sapore. “Ne posso avere ancora per favore?”.

Dopo qualche ora di permanenza a Mbooni, avevo già compilato mentalmente una classifica dei colpevoli, in cima alla quale avevo messo la temibile suocera keniana. Gli italiani che si lamentano dell’invadenza delle suocere nostrane, dovrebbe farsi un giretto qui. Nel momento in cui lascia casa per sposarsi, una ragazza (o, spesso, una ragazzina) diventa membro della famiglia del marito e finisce sotto la guida e il controllo della suocera. La madre del marito prende le decisioni sulla salute della moglie, a volte imponendo scelte dettate più da questioni di tradizione che di buon senso. Prima tra tutte quella di partorire in casa. Ma anche quella di evitare a tutti costi il parto cesareo, che normalmente viene osteggiato dai familiari in perché dà l’impressione che una donna non sia capace di partorire da sola. Come se un cesareo facesse fare brutta figura al marito.

Nel pomeriggio ho fatto un giro completo dell’ospedale con Joseph, un membro dell’amministrazione. La struttura era composta da vari edifici bianchi e bassi collegati da un vialetto coperto da una lunga tettoia. Ogni volta che arrivano dei soldi, se ne aggiunge un pezzo. Da quando avevo lasciato Nairobi non avevo più visto nessuna persona bianca. E gli sguardi che mi seguivano ovunque andassi mi confermavano di essere uno spettacolo piuttosto insolito.

In seguito i dottori mi hanno rivelato che i pazienti arrivavano da loro chiedendo di poter essere visitati dal “dottore bianco”, cioè io. Chissà che delusione quando scoprivano che ero lì solo per farmi un po’ di fatti loro.

Il momento più inquietante della visita guidata è stata la sala parto. Joseph mi illustrava tutti gli strumenti, mi descriveva le varie fasi, senza preoccuparsi minimamente del fatto che, esattamente tra me e lui, c’era una ragazzina incinta stesa sul letto che si contorceva dal dolore. Era in travaglio, e io mi sentivo come un giapponese con macchina fotografica che si ritrova in un bagno per sole donne. Ma Joseph continuava a parlare come niente fosse. Possibile che per lui quel momento delicato non meritasse un po’ di riservatezza?

Ovviamente lui avrebbe potuto rispondermi “Ma come, proprio voi che fate entrare i mariti in sala parto con tanto di telecamera, venite a parlarci di rispetto per un momento delicato?”. L’impressione che ho avuto, durante i miei giorni a Mbooni, è che la gravidanza e il parto sono ancora concepiti come un fatto naturale. Cioè spogliato della forse eccessiva medicalizzazione che gli abbiamo conferito in Europa, ma decisamente ancora troppo vicino all’estremo opposto, dove la morte di parto è qualcosa che “ogni tanto capita”.

Nei giorni seguenti mi sono seduto sul prato intorno all’ospedale a chiacchierare con un po’ di uomini. Facciamoli esprimere questi maschi africani, vediamo se sono davvero quei bruti maschilisti come vengono dipinti. Tra l’altro la mia vita da eterosessuale nel frattempo continuava a gonfie vele e, in un certo senso, senza neanche dover mentire: “Sei sposato?”, Sì. “Hai dei figli?”. Sì, ne ho tre. Mai nessuno a Mbooni ha lontanamente pensato di chiedermi se fossi sposato con una donna o con un uomo.

E se l’orientamento sessuale non è argomento di conversazione, lo stesso vale per il sesso: “Si fa ma non se ne parla”, mi ha detto sorridendo un ragazzo. Io però ne ho parlato comunque, quando ho incontrato la dottoressa Obomae. Era un chirurgo del nord del paese che lavora da qualche mese nell’ospedale di Mbooni. All’inizio il suo inglese con perfetto accento americano e il suo abbigliamento all’ultima moda mi avevano fatto supporre che fosse straniera. “Per le donne di qui il sesso equivale alla riproduzione. Il loro piacere non esiste, non è neanche preso in considerazione. Soprattutto in campagna, dove si diventa madre a quindici anni”.

Parlando di pianificazione familiare con un po’ di uomini della zona, la prima cosa che mi è saltata agli occhi è l’enorme differenza che c’è tra questa generazione e quella precedente. Altro che gap generazionale, è una voragine. Praticamente tutti provenivano da famiglie con sei, sette, otto fratelli. E praticamente tutti mi hanno detto di volere uno, massimo due figli.

“Quando il Signore mi farà il dono di trovare moglie”, mi ha annunciato in tono solenne Stephen, 21 anni, “io voglio avere un solo figlio. Perché l’unico modo per farlo vivere bene è mandarlo a scuola, e io non ho soldi per farne studiare più di uno”. Stephen, corporatura gracile e uno sguardo che sembra vedere molto più lontano, è il secondo di otto figli e ha frequentato la scuola secondaria. Una vera rarità da queste parti, e infatti nella sua famiglia ci è andato solo lui.

“Un giorno mio padre ci ha radunati tutti intorno alla tavola, fratelli e sorelle, e abbiamo discusso su chi dovesse fare la scuola superiore. Dopo aver ascoltato l’opinione di tutti, ha proposto che toccasse a me. Perché avevo i voti migliori”. Stephen sembrava ben consapevole della grande occasione che gli è capitata. Ma in quella sua determinazione a non avere più di un figlio ho letto una traccia indelebile del senso di colpa nei confronti dei fratelli che non hanno potuto continuare gli studi.

La famiglia di Stephen, che da quando è morto il padre dipende solo da lui e da suo fratello maggiore, vive in case di terra senz’acqua e senza elettricità. “La tua vita di tutti i giorni è tragica, Stephen?”, gli ho chiesto senza mezzi termini. “No. È dura, ma non è tragica”.

Com’è possibile che in così pochi anni siate passati da famiglie piene di figli a coppie che ne fanno uno o massimo due? Noi in Europa ci abbiamo messo un secolo. Di fronte a me avevo tre uomini in camice bianco, dottori e farmacisti di un piccolo ospedale a un’ora di distanza da quello distrettuale. “Vi abbiamo copiato”, mi ha detto l’ostetrico. “Voi avete dovuto capire le cose gradualmente, ma noi abbiamo modelli da seguire. Per esempio le politiche demografiche cinesi”.

Insomma, a quanto pare i keniani si stanno imponendo da soli la politica del figlio unico. “Però non avere neanche un figlio è ancora un grosso problema. I miei vicini, dopo averci provato per dieci anni, ne hanno adottato uno”. Nella mia mente da colonialista europeo l’immagine delle coppie africane che adottano un bambino giungeva molto nuova. Quando ho scoperto che una famiglia locale ci mette solo sei mesi per adottare un figlio, il mio pensiero è andato all’interminabile percorso a ostacoli a cui invece vengono sottoposte le famiglie italiane.

“Sì, ok”, ci interrompe un po’ spazientito Joeffrey, un aitante farmacista di 26 anni, “in realtà se non arriva un bambino la soluzione più frequente è trovarsi una seconda moglie e farlo con lei”. E la prima moglie che dice? “Non credo che venga interpellata”, mi rispondono i tre ridacchiando e lanciandosi sguardi d’intesa.

A questa soluzione di trovarsi una seconda moglie, prevista dall’ordinamento keniano sotto la definizione di “matrimonio tradizionale”, se ne aggiunge una che per noi italiani sembra ancora più tradizionale: “L’uomo si trova un’amante”. A parlare è ancora la dottoressa Obomae, con il suo accento americano. “Se la coppia non riesce ad avere un bambino, lui non è obbligato a prendersi in carico un’altra moglie: per dimostrare che il problema non è lui gli basta trovarsi un’amante e metterla incinta. E a quel punto nessuno potrà più dirgli nulla”.

E se invece il problema fosse davvero lui?, azzardo io. “Allora l’amante si fa mettere incinta segretamente da qualcun altro, perché comunque è nel suo interesse tenersi l’uomo che la mantiene. E così l’onore dell’uomo sarà salvo comunque”. Cioè mi stai dicendo che, come la metti la metti, se una coppia non riesce ad avere un figlio la colpa è sempre della donna? “Esattamente”.

La suocera non era più in cima alla classifica dei cattivi: il vero bruto, ormai l’avevo scoperto, era il marito, con questa sua smania di dimostrare a tutti i costi la sua virilità. Tra l’altro un problema che non è solo africano.

Più tardi ho chiesto di conversare di nuovo con Joeffrey, l’aitante farmacista di 26 anni. E non perché fosse il farmacista più bello che avessi mai visto, capace di far vacillare la mia nuova eterosessualità africana. Avevo l’impressione che avesse voglia di parlare di più, ma davanti agli altri due medici che ridacchiavano era difficile farlo tranquillamente.

Lo sai che in Europa un ospedale in un contesto come questo farebbe la gioia dei pazienti?, gli ho raccontato. La piccola struttura in cui ci trovavamo sembrava una bella casa di riposo con un cortile centrale e una distesa di alberi tutto intorno. In Italia gli ospedali sono tutti dei tristi palazzoni. “È buffo”, mi ha risposto lui, “perché noi invece daremmo non so cosa per avere uno dei vostri tristi palazzoni”.

Con Joeffrey siamo tornati sull’argomento delle coppie senza figli. Pur sapendo che la vera emergenza sono le donne che i figli li fanno, e che non possono contare su una sufficiente assistenza medica, provavo grande tristezza per tutte le ragazze discriminate e rifiutate perché i figli non riuscivano ad averli.

“Le cose stanno lentamente cambiando però”, mi ha detto lui. “Ho un amico che non ha figli ma ha deciso di non trovarsi un’altra moglie e neanche un’amante perché in chiesa gli hanno detto non ce n’è bisogno, che una coppia che non riesce ad avere bambini va bene lo stesso”.

Abituato a pensare alla chiesa come una forza conservatrice, mi ha fatto un certo effetto vedere che qui svolge ancora un ruolo di emancipazione sociale. Che poi quando li vedi per strada, questi evangelici americani pallidi e severi con la bibbia stretta al petto, ti rendi conto che non devono essere il massimo dell’apertura mentale sulle questioni sociali.

Ma il fatto è che qui le questioni sociali non sono l’aborto, l’omosessualità o il divorzio. Qui l’urgenza è liberare le persone da una struttura sociale rigidissima che rende più difficile la vita di tutti. Delle nuore, delle suocere e anche degli uomini. Perché se le donne subiscono discriminazioni di ogni genere in relazione al loro ruolo di mogli e madri, neanche gli uomini se la passano bene, costretti a provvedere da soli per la famiglia e sottoposti a continua pressione perché dipende tutto da loro.

Francis, un timido e paffuto 25enne di Mbooni, è rimasto a bocca aperta quando gli ho raccontato che i ragazzi italiani si sposano tardissimo, perché prima vogliono godersi gli anni spensierati. “Da noi è il contrario. Finché non sei sposato e non hai avuto almeno un figlio non puoi metterti l’anima in pace, vivi nell’ansia che non ce la farai. Ma appena hai un bambino ti rilassi: hai fatto il tuo dovere e puoi cominciare a goderti la vita”.

Secondo una logica tutta keniana, la situazione ideale è sposarsi con una donna già incinta da tre mesi. E perché proprio tre mesi?, ho chiesto a Francis. “Perché così sai che il grosso è fatto, il bambino arriverà, ma essendo l’inizio della gravidanza nessuno sa che lei si sta sposando già incinta”. Davvero, che ansia.

Ho passato le mie serate in un albergo di Machakos, la città più vicina all’ospedale di Mbooni. L’ultima sera, guardando il cielo illuminato da qualche debole stella, mi sono chiesto: “Ma il cielo dell’Africa non doveva essere un tripudio infinito di stelle?”. Mi è sembrato il pensiero di un turista che, specchiandosi nel lago di Bracciano, si domanda dove sia l’acqua verde smeraldo della Sardegna.

A Mbooni ad agosto fa freddo anche di giorno e gli unici animali selvatici che ho visto in giro sono cani e gatti. L’angolo di Africa in cui mi sono ritrovato non è il paradiso esotico delle agenzie di viaggio ma neanche il teatro di guerre, carestie, soldati bambino e stupri di massa che vediamo al telegiornale. È l’Africa normale, dove la vita quotidiana è una battaglia ma, come dice Stephen, non una tragedia.

Non pretendo di aver scoperto la verità su un continente intero, ma su questo distretto rurale del Kenya mi sono fatto l’idea che il progresso passi per il miglioramento della condizione femminile. Più di una volta qualche ragazzo mi ha detto: “Io e mia moglie decidiamo insieme, perché lei ha studiato come me”. E la dottoressa Obomae lo conferma: “Quando la donna guadagna, allora cambia tutto”.

Il rafforzamento del benessere delle donne si propaga lungo la loro vita, quella dei loro mariti e alla fine della società intera. Gli uomini non sono semplicemente dei bruti, sono anche loro vittime delle rigide regole sociali. E alcuni sono già pronti al cambiamento, ad accettare un sistema che valorizzi di più il ruolo delle donne.

Me ne sono reso conto l’ultimo giorno che ho passato all’ospedale, quando seduto sul prato di fronte alla sala d’attesa ho incontrato Andy con suo figlio David, di due anni. Sua moglie ha un buon lavoro e quindi lui si prende cura del bambino e si occupa dell’orto domestico. E la cosa lo rende felicissimo. “Lo faccio mangiare, lo cambio, gli faccio il bagno, perfino i vestiti li scelgo io”. E non ho avuto difficoltà a credergli, visto che i due erano vestiti praticamente identici. “Anche quando c’è sua madre in casa, lui resta comunque più attaccato a me”.

Queste frasi, dove non c’era ombra di disagio per il fatto che a mantenere economicamente la famiglia fosse sua moglie, sarebbero già abbastanza progressiste se a parlare fosse un padre europeo. Il fatto che si trattasse di un papà della campagna keniana aveva l’aria di una vera e propria rivoluzione. Come se la macchina del tempo a forma di grosso fuoristrada bianco mi avesse portato a dare un’occhiata al futuro dell’Africa. E del resto del mondo.

Claudio Rossi Marcelli sostiene la campagna Stand up for African mothers di Amref.

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