12 aprile 2022 15:21

La prima volta che vidi Pepsi and Shirlie, o meglio quelle che credevo essere Pepsi and Shirlie, è stato nel 1983 nel video di Club Tropicana degli Wham! Il video, ambientato in un villaggio vacanze di Ibiza, era un trionfo di luoghi comuni estivi anni ottanta: bikini sgambati, capelli mechati e drink colorati con l’ombrellino; tutti sorridenti, depilati, abbronzati e, nota a margine, zero tatuaggi. Ibiza senza tatuaggi: basta questo per dare il senso di quanto tempo sia passato. George Michael e Andrew Ridgeley (gli Wham!) sono impeccabili in costume, microslip bianco il primo, braghetta più sobria il secondo, e flirtano con due belle ragazze (le allora coriste della band Shirlie Holliman e Dee C. Lee) per poi ritrovarle sul volo di ritorno in cui i ragazzi sono piloti (impeccabili anche in uniforme) e le ragazze assistenti di volo (l’uniforme dona anche a loro).

Shirlie era stata compagna di scuola e fidanzata di Andrew Ridgeley e Dee C. Lee era entrata nel giro per poi uscirne quasi subito: sarebbe entrata negli Style Council e, più tardi, si sarebbe sposata con Paul Weller. È a quel punto che entra in scena Helen “Pepsi” DeMacque e che si forma il duo di amiche/coriste Pepsi and Shirlie. Sul set di quel video successe una cosa molto importante: George Michael confessò all’amica Shirlie di essere gay e lei lo incoraggiò ad aprirsi anche con Ridgeley. Lui chiamò tutti nella sua stanza di albergo e fece il suo coming out. Sebbene le coriste non facessero parte ufficialmente della band (sono sempre state pagate come turniste) il loro legame con George Michael e Andrew Ridgeley era amicale prima ancora che professionale. Sul palco, negli anni di massimo successo degli Wham!, la dinamica tra George e Andrew e Pepsi e Shirlie era esplosiva: era sexy e allo stesso tempo goliardica e i quattro avevano davvero l’aria di divertirsi.

Quando gli Wham! si sciolgono nel 1986, Pepsi e Shirlie decidono di capitalizzare sul loro successo personale e si ripropongono come duo. Il loro primo singolo, Heartache, esce proprio alla fine del 1986 ed è una delle canzoni pop che meglio definiscono la seconda metà degli anni ottanta, come temi, come struttura e come suoni. Heartache, come molti altri pezzi realizzati tra il 1986 e il 1987, dietro le sonorità synth pop e dance più aggiornate nasconde una solida intelaiatura anni sessanta. La dinamica delle voci di Pepsi e Shrlie è quella più classica dei girl group: soprano una (Shirley) e contralto l’altra (Pepsi), armonizzano con gusto e, grazie anche a diversi overdub, raggiungono quell’armonizzazione tipica di gruppi classici come Supremes, Ronettes e Shirelles.

Sono anni sessanta anche i temi: Heartache (“crepacuore”) è il tipico teen drama montato su un’irresistibile trappola pop. Ci siamo conosciuti, ci siamo guardati, ci siamo amati e poi tutto è finito: morale, io mi ritrovo qui con il cuore spezzato. Materia lacrimevole e canzone scoppiettante, proprio come i pezzi dei leggendari girl group degli anni d’oro. A rendere memorabile Heartache contribuiscono alcuni accorgimenti vocali: quegli “ha ha ha” che punteggiano il ritornello e, specularmente, la ripetizione della parola “shame”. È divertente notare come, nel 2004, il cantautore lombardo Bugo abbia scelto di campionare proprio quello “ha ha ha” nella sua Carla è Franca.

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Nella seconda metà degli anni ottanta si è assistito a una grande ondata di revival: gli anni sessanta erano ovunque, nella moda, nella pubblicità, nel cinema e ovviamente anche nella musica pop. Di recente, leggendo un libro sui rapporti tra musica popolare e pop art, mi sono imbattuto in una definizione interessante della studiosa statunitense Melissa L. Mednicov, quella di “jukebox modernism”. Mednicov conia questo termine per definire il rapporto d’interdipendenza che esisteva tra gli artisti della pop art sia americana sia europea con la cultura popolare e soprattutto con la musica come prodotto di consumo massificato: “Il jukebox modernism è un procedimento attraverso il quale gli esponenti della pop art usavano la musica popolare per sovvertire il decoro del modernismo negli anni sessanta”.

I dischi a 45 giri, le copertine, i poster, le foto ritagliate dalle riviste a colori, le sottoculture giovanili e le fanzine sono una materia magmatica che negli anni sessanta comincia a coagularsi intorno al lavoro di artisti come Andy Warhol, Mimmo Rotella, James Rosenquist e Peter Blake (solo per citare i più noti). Questo flusso di semilavorati culturali, di materiale di scarto della società dei consumi continua a scorrere per tutti gli anni sessanta e settanta e da fiumicello carsico, negli anni ottanta, si trasforma in quell’oceano sconfinato che oggi chiamiamo cultura pop. Mednicov usa il concetto di jukebox modernism come lente attraverso cui studiare il lavoro degli artisti figurativi, ma può essere usato anche al contrario, per definire quella specialissima consapevolezza che avevano i musicisti e i produttori degli anni ottanta di essere parte di un grande flusso culturale e industriale.

Il debutto solista di Pepsi and Shirlie va dunque considerato all’interno di una logica che è sia estetica sia industriale

Gli anni che vanno dal 1985 al 1989 sono ossessionati, perseguitati e posseduti dagli anni sessanta: dai suoni di quel decennio certo, ma anche da un’iconografia vissuta come gioiosa, innocente e ottimista. Il trio di produttori britannici Stock Aitken e Waterman (gli artefici del successo di meteore come Rick Astley o di pop star longeve come Kylie Minogue e Bananarama) si rifà dichiaratamente ai procedimenti industriali della Motown, la leggendaria etichetta di Detroit. Gli artisti sono intercambiabili, il suono è come un logo, sempre quello e sempre ben riconoscibile.

Se la Motown, negli anni sessanta, aveva reso pop il rhythm and blues e il soul, a metà anni ottanta Stock Aitken e Waterman rendono popolare la Hi-Energy, il suono delle discoteche gay di New York e San Francisco, sanificandolo e impiegandolo in tormentoni che sotto l’apparenza tecnologica e ultramoderna nascondevano la loro anima “boomer”: Never gonna give you up di Rick Astley, The loco-motion di Kylie Minogue e Love in the first degree delle Bananarama sono esercizi di retromania camuffati da successi pop per adolescenti. Le Bananarama, in particolare, in mano a Stock Aitken e Waterman vengono trasformate in una versione robotica e semplificata delle Supremes. Come le Supremes erano in tre e come le Supremes aderivano a una formula musicale rigidissima. L’unica differenza sostanziale era che le Bananarama non armonizzavano e cantavano sempre in coro: una semplificazione geniale che rendeva canzoni come I can’t help it, I heard a rumor e Love in the first degree delle trappole così irresistibili: erano basate solo su ritornello, bridge e hook. Meno i cantanti intralciavano la struttura con abbellimenti o personalità e meglio era. Dalle Bananarama non sarebbe mai potuta emergere una Diana Ross: le cantanti erano solo una variabile (particolarmente volatile) di un collaudato processo industriale.

Il debutto solista di Pepsi and Shirlie va dunque considerato all’interno di questa logica che è sia estetica sia industriale. I loro produttori, Phil Fearon e Tambi Fernando, non sono Stock Aitken e Waterman ma conoscono altrettanto bene il mercato e il gusto dell’epoca. All right now, il primo album di Pepsi and Shirlie, esce a settembre del 1987 ed è, a tutti gli effetti, un album da girl group anni sessanta sotto steroidi. A differenza delle Bananarama, Pepsi and Shirlie armonizzano (sono coriste con una certa esperienza e sanno cantare) e giocano con il contrasto delle loro voci che puntualmente, alla fine del terzo ritornello di ogni canzone, si lanciano in variazioni anche spericolate. Il ritmo è sostenuto per tutto l’album: generi come disco, funk, soft rock e synth pop vengono citati qua e là ma sempre al servizio di una solida e affidabile intelaiatura pop. Non ci sono ballad, c’è solo un pezzo mid-tempo, What’s going on inside your head?, che per altro è stato prodotto dalle stesse artiste. Tutti gli altri numeri sono ballabili e astutamente irresistibili.

A rendere sorprendente un album progettato per avere poche sorprese sono le parole delle canzoni e le personalità delle due artiste che straripano da ogni pezzo. All right now, nonostante il titolo ottimista (“Ora va tutto bene”), è un concentrato di teen drama e di pessimismo cosmico adolescenziale. Nelle canzoni ricorrono le parole “shame”, che vuoi dire sia vergogna sia peccato (nel senso di “che peccato!”), “goodbye” (addio), “pain” (dolore), “tears” (lacrime) e “trick” (imbroglio). L’amore non va liscio nel mondo di Pepsi and Shirlie.

All right now, la canzone che dà il titolo all’album, è uno strano divertissement soft rock che spezza l’andamento pop dance dell’album. La canzone descrive una ragazza che rimorchia un tipo per strada (“andiamocene in fretta da qui prima che scatti il parchimetro”), se lo porta a casa e poi lo affronta a muso duro “Tu pensi che l’amore non possa durare?”. Ogni canzone di Pepsi and Shirlie ha a che fare con una delusione d’amore: Se Heartache affronta il tema in modo esplicito, Goodbye stranger è solo rassegnata: innamorarsi vuol dire per forza arrendersi e perdere. Can’t give me love, che parte quasi come un plagio di Jump dei Van Halen per poi trasformarsi in un clone delle Pointer Sisters, contiene un verso che è un manifesto del Pepsi and Shirlie pensiero: “Total commitment means so much pain!”, un impegno serio porta un sacco di dolore.

All right now è la quintessenza del pop più commerciale degli anni ottanta come suoni e come estetica ed è anche, come temi e svolgimento, un simbolo della retromania di quel periodo. Pepsi and Shirlie, come le Ronettes, le Shirelles e soprattutto le Shangri-Las prima di loro, hanno il dono di trasformare la teenage angst, l’angoscia adolescenziale, quel senso di inadeguatezza e di paura del futuro, in un colorato e irresistibile prodotto di massa.

All right now di Pepsi and Shirlie è stato ristampato con remix e tracce extra nel 2011 ma non è disponibile sulle piattaforme di streaming.

Pepsi and Shirlie
All right now
Polydor 1987 / Cherry pop 2011

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