13 giugno 2016 17:52

Paolo Rossi di testa, Marco Tardelli con un perfetto diagonale da sinistra e infine Alessandro Altobelli per il colpo di grazia. L’11 luglio 1982 gli azzurri liquidarono la nazionale tedesca in poco più di venti minuti. L’Italia aveva vinto la terza coppa del mondo. Per molti tifosi francesi il vicino transalpino aveva vendicato gli undici di Michel Platini, eliminati dolorosamente in semifinale dalla squadra di Harald Schumacher. Nel secondo turno gli uomini dello scaltro Enzo Bearzot avevano messo in crisi l’Argentina della giovane stella Diego Armando Maradona ed eliminato il Brasile di Zico e Falcao che sembrava imbattibile.

Criticati dalla stampa già da prima della competizione e duramente attaccati dopo tre pareggi nel primo turno, gli azzurri trionfarono tra la sorpresa generale grazie a un’organizzazione difensiva perfetta. “Santo Catenaccio”, si entusiasmò il giorno dopo sulle pagine di Repubblica il leggendario giornalista sportivo e scrittore Gianni Brera. L’articolo era un vero e proprio manifesto calcistico dai forti accenti nazionali: “La tua vittoria è limpida, pulita: non è neppure venuta dal caso, bensì da un’applicazione soltanto logica (a posteriori!) del modulo che ti è proprio, e in tutto il mondo viene chiamato all’italiana”. Contro i “pavoni brasiliani” e “il bischero della Plata Cesar Menotti (l’allenatore dell’Argentina) che ci aveva accusato di passatismo storico e di ritardo storico imperdonabile”, Bearzot “ha fatto ricorso senza falsi pudori al culto della difesa e Santo Catenaccio l’ha ripagato con la puntuale solerzia del taumaturgo di elezione”.

In seguito l’allenatore della squadra azzurra cercò di rettificare il giudizio di Brera spiegando che il suo sistema di gioco non era solo fondato sull’applicazione di un muro protettore con un gran numero di difensori, di marcatori attaccati ai pantaloncini degli attaccanti avversari e di contropiedi micidiali. Ma non importa. La vittoria del 1982 con i suoi pilastri difensivi rappresentati da Gaetano Scirea e Claudio Gentile rimarrà nella memoria come l’apoteosi del “gioco all’italiana” e l’apogeo del “catenaccio” come modello di calcio. Prima di una lunga eclissi che probabilmente è destinata a finire.

“Con l’attuale allenatore Antonio Conte si assiste a un ritorno alla tradizione italiana”, osserva il giornalista Mario Sconcerti, ex direttore del Corriere dello Sport. “La maggior parte delle squadre europee gioca in orizzontale, cioè avvicinandosi alla porta avversaria con passaggi trasversali. Al contrario Conte si basa su una difesa estremamente solida e riparte con un gioco rapido, in verticale”. È il ritorno del catenaccio?

In Italia la questione va al di là della semplice discussione sportiva, perché “il calcio, quando assume un carattere di massa negli anni cinquanta, diventa per gli italiani un elemento di identità nazionale e il catenaccio è il loro marchio di fabbrica”, osserva Fabien Archambault autore del libro Le contrôle du ballon. Les catholiques, le communistes et le football en Italie de 1943 au tournant des années 80 (Bibliothèque des écoles françaises d’Athènes et de Rome, 2012).

Uniti per vincere

Ma in realtà la questione risale agli anni trenta. All’epoca il calcio era considerato come un gioco praticato dagli inglesi e dagli stranieri, ed era guardato con circospezione dal regime fascista. Gli si preferiva il più popolare ciclismo. Ma era necessario battere le squadre del nord, in particolare la vicina Austria che adottava un gioco offensivo. Di conseguenza furono concessi dei passaporti ai giocatori sudamericani, uruguaiani e argentini (gli “oriundi”, figli di emigrati italiani), abituati al gioco difensivo e che avrebbero rafforzato la nazionale.

Così l’Italia vinse la Coppa del mondo del 1934 (anche grazie a Luis Monti soprannominato il “doblo ancho”, armadio a due ante, che era stato finalista quattro anni prima con la maglia dell’Argentina) e si sarebbe ripetuta quattro anni dopo. “Ma il catenaccio non è solo un gioco difensivo”, scrive Archambault, “è prima di tutto un’idea legata alla disciplina, alla tattica – adottato prima di tutti gli altri paesi – con un ruolo preciso assegnato al capitano e all’allenatore. Il catenaccio è una risposta del debole contro il forte. E in quanto tale permette di vincere e diventa consustanziale con l’idea dell’Italia”.

“All’inizio degli anni cinquanta il catenaccio era applicato prima di tutto dalle piccole squadre per ristabilire un equilibrio nel campionato italiano”, sottolinea Sconcerti. “Poi nel 1953 l’Inter diventa la prima squadra a vincere il campionato con questo tipo di gioco, l’allenatore Alfredo Foni riprende l’idea (sviluppata per la prima volta in Svizzera negli anni trenta dall’allenatore austriaco Karl Rappan) di togliere un centrocampista per aggiungere un difensore centrale senza marcature precise”. Nasce così il “libero” e la linea difensiva passa a quattro elementi. Nel corso degli anni e in alcune fasi del gioco, la difesa potrà contare fino a sei giocatori.

L’efficacia del gioco e la difesa a oltranza permettono a un’Italia uscita esangue dalla guerra di ritrovare uno status di grande potenza al livello sportivo. Negli anni sessanta il catenaccio di Nereo Rocco alla guida del Milan e di Helenio Herrera allenatore dell’Inter s’impone in Italia e permette di conquistare l’Europa. Brera arriverà al punto di teorizzarne il concetto. “Per lui gli italiani – piccoli, tarchiati ma lavoratori e ostinati – non possono competere ad armi pari con i popoli del nord, più grandi, meglio nutriti e più atletici”, ricorda Archambault. “L’adozione del catenaccio testimonia quindi la capacità di adattamento degli italiani nei confronti dell’avversità, è la dimostrazione della loro furbizia e della loro capacità nel sapersi arrangiare”.

Claudio Gentile (a destra) e il tedesco Pierre Littbarski alla finale dei Mondiali, a Madrid, l’11 luglio 1982. (Bob Thomas, Getty Images)

Una visione che sarà largamente condivisa dalle principali forze politiche del paese. Secondo Archambault “la Democrazia cristiana aveva completamente adottato questa concezione perché i giocatori dovevano essere disciplinati e rispettare l’allenatore così come dovevano essere fedeli nei confronti della chiesa e della gerarchia cattolica. Ma anche i comunisti adottarono questa filosofia: per loro il catenaccio era il gioco dei poveri, dei proletari ed esaltava il senso del collettivo. L’organizzazione disciplinata della squadra riprendeva l’obbedienza nei confronti del partito e del suo segretario generale”.

Tradizione e rivoluzione

Anche per una parte dell’estrema sinistra il catenaccio, con il suo risparmio di forze, con l’attesa del momento propizio per rovesciare la situazione, è assimilata a una forma di resistenza, a una sorta di metafora dello sciopero che blocca la produzione del gioco dell’avversario. “Il catenaccio era la lotta di classe, si era deboli e ci si doveva difendere”, ha detto nel 2006 il filosofo Toni Negri in un’intervista a Libération. “Era come se il catenaccio facesse parte del carattere italiano, probabilmente non lo hanno inventato, era già in loro”, aveva sintetizzato Pier Paolo Pasolini.

Quando l’Italia fu eliminata ai Mondiali del 1966 dalla modesta Corea del Nord praticando un gioco meno difensivo, l’allenatore fu messo alla gogna. Edmondo Fabbri “aveva tradito” la tradizione nazionale. L’umiliazione diventò un caso politico, il parlamento decise di chiudere le frontiere nel campionato italiano ai giocatori di origine straniera. Ma dietro questa apparente unanimità in favore del catenaccio nel 1970 apparvero le prime crepe. In quell’anno, nella semifinale dei Mondiali in Messico l’Italia sconfisse la Germania in modo epico.

Alla fine dei tempi regolamentari le due squadre erano in parità, uno a uno. A causa del calore e della stanchezza durante i supplementari saltarono gli schemi, mentre il leggendario centrocampista d’attacco Gianni Rivera entrò nel secondo tempo e sconvolse i piani tattici. In un finale convulso la “partita del secolo” finì con una vittoria degli azzurri per 4 a 3. “Sul piano tecnico e tattico il calcio praticato è stato del tutto confuso e mediocre”, osservava Brera. Ma per la maggior parte dei giovani fu una liberazione. Il vento del maggio ‘68 era passato anche per il calcio. “L’attacco e il coraggio avevano portato alla vittoria contro i tedeschi. La conclusione era che gli studenti dovevano fare la stessa cosa e prendere il potere”, riassume Archambault. Quella sera la difesa a oltranza, simbolo di una “Democrazia cristiana attendista, ipocrita e scaltra”, era stata messa in crisi, scriverà in seguito il sociologo ed ex ministro Nando dalla Chiesa.

Tocca ormai al giovane capo del governo Matteo Renzi allontanare lo spettro di un gioco di rimessa

In finale, l’Italia tornò al suo gioco tradizionale. Rivera entrò in campo solo negli ultimi sei minuti e gli azzurri furono sconfitti dal Brasile 4 a 1. Resta il fatto che in un’Italia che aveva conosciuto il miracolo economico, l’esigenza del bel gioco e del piacere cominciavano a essere apertamente rivendicati da una parte del paese. In particolare da alcuni socialisti come il direttore del Corriere dello Sport, Antonio Ghirelli, che arriverà al punto di scrivere: “Il catenaccio è una metafora della Democrazia cristiana. Votare Dc significa giocare per lo 0 a 0”. Quest’aspirazione a un gioco più spigliato è stata perfettamente recepita alla metà degli anni ottanta da un giovane imprenditore che si stava lanciando nella televisione e nel calcio con la benedizione del Partito socialista di Bettino Craxi.

Nel 1986 Silvio Berlusconi compra il Milan e recluta a peso d’oro le stelle del calcio, fra cui il trio olandese Van Basten-Gullit-Rijkaard. Nel frattempo è sparito il divieto di ingaggiare giocatori stranieri. L’Italia volta le spalle agli anni di piombo, supera per prodotto interno lordo il Regno Unito e riconquista i vertici del calcio europeo. “Il gioco spettacolare del Milan, ritrasmesso dalla tv, obbliga tutte le altre squadre ad adattarsi, a essere più offensive”, osserva Sconcerti, che però sottolinea come “l’Italia non ha mai completamente abbandonato il suo carattere difensivo e il suo senso tattico”. “Questo le permetterà di vincere un quarto mondiale nel 2006”, osserva Archambault.

Con la crisi economica il campionato italiano ha ormai perso molto della sua superbia. La maggior parte dei migliori giocatori stranieri ha preferito destinazioni più ricche: la Liga spagnola, la Premier league inglese o il Paris Saint-Germain. Berlusconi sta vendendo il Milan e la maggior parte degli allenatori delle squadre italiane si rifugia nel tiki-taka nella propria metà campo o a un catenaccio leggermente modernizzato. I tifosi sperano che agli Europei la nazionale italiana, priva di star eccetto il portiere Gianluigi Buffon, saprà ancora una volta far valere il suo senso tattico, la sua disciplina e la sua capacità di praticare un calcio efficace. E al diavolo il bel gioco!

In una penisola in crisi di fiducia e con un’economia stagnante, tocca ormai al giovane capo del governo Matteo Renzi allontanare lo spettro di un gioco di rimessa: “Il Partito democratico non può rimanere chiuso nel catenaccio, dobbiamo dire che stiamo cambiando l’Italia. Basta con i discorsi negativi”.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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