30 marzo 2016 15:45

Come suona strano qui in Turchia il nome di Radovan Karadžić. Su Al Jazeera la notizia della condanna dell’ex presidente della Repubblica serba di Bosnia per il genocidio di Srebrenica arriva che è già sera, è già buio e la polizia turca già spara: spara contro i profughi che dalla Siria, che comincia oltre il filo spinato, provano ad attraversare il confine per rifugiarsi qui. Ogni mattina, tra l’erba, s’intravedono uno o due cadaveri. I jihadisti e le armi invece passano da un’altra parte. Chissà dov’è oggi e cosa fa il giudice Baltasar Garzón?

Sembra di guardare un telegiornale di vent’anni fa, quando si duellava su ogni parola delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, cercando almeno una parvenza di legittimazione per le proprie guerre. Gli anni degli interventi umanitari, dei caschi blu, del capitolo 7 della carta delle Nazioni Unite. Gli anni del Tribunale penale internazionale e delle commissioni d’inchiesta, di Richard Goldstone, della giurisdizione universale, dell’arresto di Pinochet a Londra su mandato di Garzón. Gli anni in cui si temeva che il diritto internazionale fosse troppo forte, perché poi nella vita, si diceva, bisogna anche dimenticare. Non riapriamo le ferite del Cile.

Un tempo sul bombardamento della tv di Belgrado si scrivevano libri interi. Erano civili, erano solo giornalisti o erano agenti della propaganda, complici di Slobodan Milošević quanto i suoi apparati di sicurezza? Erano un obiettivo militare o no? Ora invece non si ha neanche idea di chi stia bombardando. Sarà la Russia, sarà Bashar al Assad, saranno gli Stati Uniti? Sarà la Turchia? Saranno amici o nemici? Ti vogliono vivo o morto?

Capire non vuol dire legittimare

Un tempo Milošević finiva in carcere. Ora scrivi “il regime di Assad”, e in redazione ti correggono: non bisogna esprimere opinioni personali. Si dice “il governo di Assad”. Ora giuristi e analisti sono sempre meno: è il tempo degli investigatori. Il tempo degli attentati terroristici affrontati come casi di cronaca nera. Il jihadista della porta accanto.

Tutta la nostra attenzione è per le biografie individuali: e più sono storie strane, e quindi poco rappresentative, più trovano spazio. Quello che prima di arruolarsi si è assicurato che al fronte ci fosse la Nutella, quello che in aeroporto si è comprato il bignami sull’islam. Il ricercato che si è consegnato alla polizia e ha chiesto la ricompensa per il suo arresto.

Stiamo qui a scavare nelle adolescenze difficili, in questi giorni, nell’alienazione degli immigrati, nel degrado di Molenbeek: di tutto parliamo tranne che delle motivazioni dei jihadisti, nella convinzione che discuterle significhi legittimarle – e quindi parliamo di Bruxelles, solo di Bruxelles, tutti concentrati a capire perché è così vulnerabile. Le forze di sicurezza inadeguate, l’amministrazione divisa in 19 distretti. I valloni e i fiamminghi. O forse i tanti stranieri tra cui è facile mimetizzarsi, forse la legge, che non consente di sorvegliare le moschee – ma il vero fallimento, in questi giorni, non è dell’intelligence, ma della politica. Il vero fallimento non è in Belgio, ma in Siria.

Nelle sentenze di Antonio Cassese non c’erano mai cristiani e musulmani: c’erano solo uomini

“Per ora non abbiamo alternativa, perché non abbiamo contraerea: possiamo solo rispettare la tregua”, mi hanno detto dei militanti del Fronte al nusra, la filiale locale di Al Qaeda. “Ma rispettarla non significa accettarla. Sposteremo il fronte. Attaccheremo altrove”. Ed è quello che ti dicono tutti i jihadisti, qui. Tutti. Perché questa tregua è completamente sbilanciata in favore di Assad. Contrariamente alle apparenze, il regime e i ribelli sono in stallo come sempre: sul piano militare, e soprattutto, politico e sociale, non sono abbastanza forti da vincere, ma entrambi sono abbastanza forti da non perdere. Il mondo guarda Palmira, ma ad Aleppo i siriani sono di nuovo tutti in piazza con le bandiere della rivoluzione.

In questa guerra quello che cambia è il sostegno esterno, che adesso che l’Arabia Saudita e la Turchia sono in difficoltà per ragioni proprie è diminuito per i ribelli ed è aumentato per Assad. L’Onu per la prima volta ha l’opportunità di negoziare un compromesso, invece questa tregua punta alla capitolazione dei ribelli. Non fa concessioni, e infatti esclude imprecisati “gruppi terroristi”: non è cambiato niente, qui, chiunque può essere bombardato in ogni momento. Perché l’idea di fondo è che Assad sia il male minore. Che Assad sia il nostro migliore alleato nella guerra al califfato.

Quello che in Iraq sono le milizie sciite: l’ultima in cui mi sono imbattuta aveva appena twittato la foto di un jihadista appeso a un traliccio e arrostito come un kebab. Il comandante sorrideva e lo affettava con una sciabola. Ma per molti iracheni il male minore è lo Stato islamico. È come il fiume di Aleppo, che divide in due la città e vomita cadaveri. Da che parte arrivano? Dalla metà sotto il controllo del regime o dalla metà sotto il controllo dei ribelli? Chi sono? E da chi sono stati uccisi? Il male minore, in Medio Oriente, dipende semplicemente dalla corrente, dalla riva del fiume su cui ti trovi.

Le sentenze scritte da Antonio Cassese, primo presidente del tribunale per la ex Jugoslavia, erano affascinanti. Perché scomponevano la guerra nei dettagli. Ricostruivano un episodio specifico, un singolo omicidio all’interno di un singolo massacro: e attraverso quel singolo omicidio, in controluce, l’intera Bosnia. Nelle sue sentenze non c’erano mai sunniti e sciiti, cristiani e musulmani: c’erano uomini, solo singoli uomini con le loro azioni. Le loro decisioni. Le loro motivazioni.

Responsabilità individuali

Il diritto internazionale penale contemporaneo, di cui Cassese è stato tra i fondatori, ha affiancato alla tradizionale responsabilità degli stati la responsabilità individuale di chi pianifica, ordina, compie o lascia compiere crimini di guerra, nella convinzione che solo la prospettiva di un ergastolo può fermare chi combatte. Ma per Cassese ricollocare al centro di tutto la persona, con i suoi limiti, le sue fragilità, la persona con la sua storia, aveva anche un altro obiettivo: sottrarsi all’epica del bene contro il male. Perché una guerra non è mai in bianco e nero: la guerra è grigia. E Cassese era l’opposto di Carla Del Ponte, che era a capo invece della procura del tribunale, e intitolava le sue memorie La caccia. Cassese minimizzava: questo è solo il giudizio di un tribunale, diceva. Non è il giudizio di Dio.

E invece oggi è di nuovo il tempo del far west. Oggi è di nuovo il tempo del nemico assoluto. Del nemico che è altro da noi, è solo un assassino. Solo uno squilibrato. Il nemico perfetto: quello contro cui non ci si interroga. Ma per chi vive in Medio Oriente le ragioni alla base della forza dei jihadisti sono evidenti. Discuterle non significa legittimarle, tutt’altro: significa riconoscere che sono la risposta sbagliata a problemi reali.

Nessuno qui ha davvero intenzione di sottomettersi a un uomo in turbante: quello che risuona del califfato è piuttosto l’abbattimento delle frontiere, l’idea dell’unità araba – anche perché avere un visto è un’impresa: non sono frontiere, sono barriere. O la sharia, che non significa mozzare la mano al ladro. La sharia è un ordinamento giuridico fondato sull’esperto di diritto invece che sul giudice e sul legislatore. E chi la vuole in fondo vuole un diverso equilibrio tra l’individuo, la società e lo stato: un ruolo maggiore per la società e minore per lo stato.

E poi la contestazione dell’occidente, naturalmente. Che non è la contestazione dei nostri valori, ma della collusione tra i nostri governi e le nostre multinazionali da una parte e le élite locali dall’altra, la contestazione della corruzione, del clientelismo, di un sistema per cui in un paese come l’Iraq, che galleggia sul petrolio, gli iracheni non hanno la benzina né l’elettricità.

Questa è una parte di mondo in cui si è semplicemente ostaggi, di chiunque. Non esistono regole

Ma soprattutto l’estremismo, qui, sembra essere il solo modo di opporsi all’invisibilità. All’irrilevanza. Questa è una parte di mondo in cui si è semplicemente ostaggi, di chiunque. Non esistono regole. All’improvviso la Russia non bombarda più, ma magari domani ricomincia. E così gli Stati Uniti. Così l’Italia in Libia. Chiunque può arrivare e bombardare. E sei ostaggio se rimani, ma anche se fuggi: il tuo destino di rifugiato dipende dalla generosità di Angela Merkel, dai calcoli di Recep Tayyip Erdogan. Da chi vince le elezioni in Ungheria. In questa parte di mondo la tua vita e la tua volontà non contano niente.

E Assad è il simbolo di tutto questo: il simbolo del ritorno alla politica di potenza, alle partite a scacchi tra stati. E quando consideriamo le dimissioni di Assad non come una precondizione dell’accordo di pace, ma come una sua clausola qualsiasi, al pari di quanti deputati avrà il prossimo parlamento, quando diciamo che non spetta a noi decidere su Assad, non assistiamo alla capitolazione dei ribelli ma del diritto internazionale. Ed è da questo che i jihadisti traggono consenso, dalla lotta contro un ordine internazionale che è ordine solo per noi che siamo nati dalla parte dei potenti: non è che la legge del più forte. Visto da qui non è ordine, ma l’arbitrarietà più totale.

Cassese scriveva sentenze lunghe centinaia di pagine, dieci volte più lunghe delle altre, perché era un teorico dell’obiter dictum, “quello che viene detto di passaggio”. Come il diritto angloamericano, il diritto internazionale si basa sui precedenti, e l’obiter dictum è tutto quello che non rientra nella decisione in senso stretto ma serve a chiarire il contesto. È quello a cui i giudici delle generazioni successive si appigliano quando cercano di adeguare il diritto ai tempi che cambiano, quando tentano di migliorarlo, ricostruendo che a quei tempi in effetti la maggioranza finì per pensarla così, ma non tutti. Qualcuno era già più avanti.

Quindi non importa come vada il mondo e dove sia oggi Baltasar Garzón. Bisogna comunque dire “il regime di Bashar al Assad”.

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