23 giugno 2015 16:51

La prima volta che ho visitato una persona detenuta in un centro di identificazione ed espulsione (Cie) non ero sola. Ho raggiunto Steenokkerzeel, la località belga dove si trova il centre fermé 127bis, insieme a qualcuno che andava a trovare un altro detenuto.

Durante il tragitto abbiamo parlato dei controlli all’ingresso, delle condizioni della visita, del comportamento delle guardie. Fino a quel giorno avevo visto il centro solo da dietro le due alte barriere metalliche che separano l’opprimente edificio grigio chiaro da una stradina di campagna solitamente percorsa da tre categorie di persone: gli impiegati del Cie, i parenti e gli amici dei detenuti e i plane spotters, gli appassionati di osservazione degli aerei.

L’aeroporto di Bruxelles-Zaventem si trova dall’altro lato della strada principale, facilmente raggiungibile dai furgoni che ogni settimana trasportano i detenuti condannati al rimpatrio forzato. I plane spotters si piazzano su una collinetta alle spalle del 127bis, prendono il binocolo e puntano lo sguardo oltre, ignari o indifferenti.

Delle sei persone che sono andata a trovare durante il periodo della loro detenzione in un Cie belga, cinque sono state liberate. Il sesto, Thierry (i nomi sono tutti di fantasia), è stato espulso su un volo collettivo verso la Repubblica Democratica del Congo, nonostante fosse un oppositore politico. “Se esco da qui”, diceva, “giuro che faccio un film su questo posto”. Dal giorno della sua espulsione non sono più riuscita a contattarlo.

Anja, una signora cecena gravemente malata, e Aicha, una ragazza transessuale nata a Melilla, hanno ottenuto un titolo di soggiorno. Ali e Amira, una coppia di giovani afgani la cui prima richiesta d’asilo era stata respinta, sono stati lasciati per strada senza uno straccio di documento né di assistenza. Lei aveva da poco avuto un aborto spontaneo, che di spontaneo, viste le condizioni in cui aveva dovuto vivere i suoi primi cinque mesi nella civilissima Europa, non aveva nulla.

Anche Ousmane è stato liberato con un ordine di lasciare il territorio, ma per fortuna aveva già una rete di contatti in Belgio. Oggi Ali e Amira, grazie all’impegno di un secondo avvocato, hanno ottenuto un titolo di soggiorno. Ousmane ancora no. Da un anno milita in un collettivo di sans-papiers e ha una luce meno cupa negli occhi.

Non hai i documenti in regola? Non puoi lavorare, non puoi farti curare, non puoi tornare a casa. Puoi però farti sfruttare nei tanti settori che non siamo riusciti a delocalizzare

Questi e altri incontri mi ricordano che sono cittadina di un’Unione europea segregazionista.

Una volta qui, e prima ancora di essere criminalizzata, tanta parte della popolazione straniera è “costretta a vivere in uno stato di inferiorità e soggetta a umilianti proibizioni” (dalla definizione di “apartheid” nell’enciclopedia Treccani).

Non hai i documenti in regola? Non puoi lavorare, non puoi farti curare, non puoi sporgere denuncia se sei vittima di violenze, non puoi sposarti (o meglio puoi, ma potremmo approfittare della lieta occasione per arrestarti), non puoi tornare a casa per le feste né per il funerale di tua madre.

Puoi però farti sfruttare nei tanti settori che non siamo riusciti a delocalizzare (edilizia, pulizia, agricoltura, ristorazione), puoi prenderti cura dei nostri anziani e dei nostri bambini, puoi pagare un affitto in nero esorbitante per una casa fatiscente, puoi anche avere amici e fare figli. Puoi vivere tra noi per mesi, anni, decenni, ma ricordati: docile e in disparte. E ricorda anche che dall’oggi al domani noi possiamo distruggere tutto quello che hai costruito. Possiamo privarti della tua libertà, separarti dalla tua famiglia, picchiarti fino a farti salire su un aereo che ti porterà dove vogliamo noi. Oppure ributtarti nella tua vita fatta di umilianti proibizioni. O, se sei molto fortunato e ci accorgiamo di aver interpretato male le leggi che noi stessi ci siamo dati, ti lasceremo andare con un titolo di soggiorno e nessuna scusa.

Medici e tranquillanti

Insieme ai cadaveri e ai relitti che punteggiano il fondo del Mediterraneo, i Cie sono l’incarnazione più violenta delle politiche segregazioniste dei governi europei. In molti paesi esistono da oltre vent’anni. In alcuni sono gestiti privatamente, in altri, come in Belgio, sono strutture pubbliche, e chi ci lavora è convinto di essere un innocuo funzionario statale (come gli assistenti sociali, lì dentro, sono convinti di fare gli assistenti sociali invitando le persone ad accettare la propria espulsione, e i medici di fare i medici imbottendo i detenuti di tranquillanti).

Dopo una prima ondata di proteste radicali, che avevano l’obiettivo di distruggere sul nascere queste nuove prigioni per stranieri, per anni si sono affermate posizioni più o meno riformiste. La corrente radicale però non si è mai spenta, come dimostrano le azioni della rete No Border, attiva dal 1999, e le numerose rivolte dei detenuti.

Nel 2013 la rete spagnola Cies No ha dato il via alla giornata internazionale contro i centri di detenzione per stranieri (il 15 giugno). Quest’anno ha lanciato un appello a una mobilitazione di una settimana, dal 15 al 21 giugno, alla quale hanno aderito nove paesi. Il 20 giugno, davanti al Cie greco di Amygdaleza, un centinaio di poliziotti in tenuta antisommossa ha accolto i manifestanti venuti a ricordare al governo Tsipras la promessa, non ancora mantenuta, di chiudere i Cie del paese.

Lo stesso giorno la neoeletta sindaca di Barcellona, Ada Colau (del partito Podemos), ha dichiarato di appoggiare le proteste organizzate nella sua città. Il 2 luglio la commissione giustizia e diritti umani del parlamento catalano voterà le conclusioni di un gruppo di lavoro sui Cie che, tra le altre cose, chiede la chiusura di quello di Barcellona entro sei mesi. Già nel febbraio del 2015 l’amministrazione comunale di Málaga aveva approvato una mozione in cui respingeva l’ipotesi che sul suo territorio riaprisse un centro di detenzione per stranieri (in seguito a numerose denunce il centro di Capucinos era stato chiuso nel 2012, dopo ventidue anni di attività). “Chiudere i Cie non è più un’utopia”, ripetono gli attivisti spagnoli, e forse hanno ragione.

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