Dai fantasmi o entità del tailandese Weerasethakul a quelle del messicano Post tenebras lux passato ieri in concorso a Cannes.
Del suo regista, Carlos Reygadas, ho accennato qualcosa due post fa, parlando proprio del documentario di Weerasethakul. E mi chiedevo: sarà furbetto, virtuoso in modo ostentato nella regia e un po’ inconcludente come i suoi film precedenti? Un po’ sì, forse però meno di altri come Battaglia nel cielo.
Se il film più bello, non solo del concorso ma anche del festival tout court, ci pare Holy motors – che segna il ritorno alla regia del francese “maledetto” Leos Carax superando perfino Haneke – Reygadas riesce a però ad impressionare e a creare magia (e non sarà certo The paperboy, lo spot pro-pena di morte di Lee Daniels – pur bello sul piano filmico – proiettato stamane in concorso, a cambiare le carte in tavola, per non parlare dei polpettoni estetizzanti di Walter Salles, come giustamente ha scritto Lee Marshall).
Un bambina – bellissima – guarda e ascolta piena di meraviglia un temporale e il rombo dei tuoni. È letteralmente immersa – tutto è filmato dal basso, al livello dei piedi della bimba – nell’immensità della natura oltre che dei fenomeni atmosferici. Siamo negli altopiani verdissimi del Messico circondati da alte montagne ricoperte di un verde altrettanto intenso. Da dietro quelle montagne, da quel paesaggio primordiale, ci si aspetta di veder comparire da un momento all’altro un dinosauro. La bimba è la figlia del regista e quella citata è la sequenza iniziale. Non avevamo mai visto una sequenza del genere al cinema. E non solo noi.
Seguiranno altre sequenze speciali nel corso del film, anche se non di questa bellezza.
È buffo che abbia fatto quest’accostamento tra Reygadas e Weerasethakul nel post su I magnifici fantasmi di Weerasethakul, perché dopo la visione più d’uno degli astanti che hanno assistito alla proiezione si è detto convinto che una parte dell’ispirazione venisse dalla filmografia del regista tailandese. Il fantasma-diavolo notturno in digitale pare prossimo ai fantasmi-diafani degli animali in digitale nel panteistico Tropical malady anche per la sua delicata trasparenza (rosea, in questo caso); la casa sperduta nella giungla leggermente sopraelevata, dove appaiono delle entità, fa invece pensare a Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti. Il tema di fondo è qui comune ai due registi: la perdita di memoria identitaria ancestrale e del vuoto drammatico che ne consegue.
Ma il messicano, sotto quest’ultimo aspetto, procede in maniera inversa al tailandese. Non vi è la pregnanza, il substrato di referenze alla memoria delle leggende popolari e dello stesso cinema tailandese (e non solo di quello tailandese, a cominciare da Jacques Tourneur) come in Weerasethakul (reminiscenze e fantasmi dal cinema che ritroviamo tra l’altro in Holy motors). E pare proprio questo il senso dell’operazione: solo i bambini sono ancora in auscultazione di un soprannaturale in verità così naturale (oltre alla figlia figura nel cast anche il figlioletto: in realtà è tutta una cosa in famiglia). Il mondo adulto è ormai del tutto scollegato, privo d’identità e infelice.
Il problema è che il film finisce per essere speculare a questo vuoto. A forza di rappresentare un mondo scollegato e senza densità invece di un mondo scollegato alla ricerca di questa densità perduta (Weerasethakul), il film si lascia prendere un po’ in trappola da quello che vuole dimostrare. La trappola è l’approccio stesso scelto dal cineasta.
Nondimeno tra queste sequenze scollegate tra loro, tra queste diffrazioni temporali, nello scontro tra le tenebre e la luce viste come l’unico continuum possibile, molte sono le gemme da ottimo cinema, a tratti addirittura di grande cinema. Anche se forse non è capace di andare oltre, di essere davvero post.
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