05 agosto 2016 14:50

Gli zombie a volte tornano. E ti fanno anche un ottimo film. È il caso di The girl with all the gift di Colm McCarthy, il film d’apertura dell’edizione 2016 del festival di Locarno, proiettato in una piazza Grande gremitissima. Festival che come sempre abbonda di ospiti a disposizione del pubblico.

In un festival come questo di Locarno, vetrina tra le migliori del cinema d’autore più avanzato e innovativo – e tutto sembra preannunciare che anche quest’anno così sarà a giudicare dai primi film del Concorso internazionale come il bulgaro Slava o il portoghese Correspondências –, in un’atmosfera gioiosa e piena di giovani sempre più rara da trovare negli altri grandi festival, vedere un film del genere può essere non così scontato, anche considerando che in piazza Grande di solito sono presentati film più accattivanti.

Lo è di meno se si pensa che quest’anno uno degli ospiti d’onore è una figura come il regista statunitense Roger Corman, maestro del B movie. Corman, che ha 90 anni, ha regalato una quantità di piccoli classici di cinema di genere, in particolare horror – indimenticabili i suoi adattamenti da Poe interpretati da Vincent Price –, e la sua factory ha lanciato non pochi degli autori di quella “New Hollywood” che rappresenta il momento culminante della fine del sistema degli Studios.

Il racconto in pubblico

Corman è stato infatti il padrino di registi del calibro di Martin Scorsese, Jonathan Demme, Peter Bogdanovich, Francis Ford Coppola e con la sua società di distribuzione fece scoprire al grande pubblico statunitense molti film stranieri tra cui quelli di registi come Federico Fellini, David Cronenberg, Ingmar Bergman, Werner Herzog, Akira Kurosawa, Alain Resnais, François Truffaut, Hayao Miyazaki. Sarà quindi davvero interessante ed emozionate sentirlo parlare, come pensiamo lo sarà ascoltare gli altri grandi grandi nomi che, come sempre, non verranno solo a far passerella ma a raccontarsi in “conversazioni” pubbliche. Da Stefania Sandrelli a Harvey Keitel, dall’attore-regista Louis Garrel (e figlio del grande regista Philippe) a Ken Loach, da Jane Birkin a Alejandro Jodorowsky.

Ma non si può nemmeno tacere, tra i tanti eventi e minirassegne, la retrospettiva curata da Olaf Möller e Roberto Turigliatto, Amato e rifiutato: il cinema della giovane Repubblica Federale Tedesca dal 1949 al 1963, che comprende più di settanta lungometraggi, compresi titoli di Fritz Lang, Georg Wilhelm Pabst, Edgar Reitz Robert Siodmak e dell’attore Peter Lorre (quello di M - Il mostro di Düsseldorf capolavoro di Lang del 1931).

Il tutto accompagnato da un lussuoso e copioso saggio-catalogo (cosa, va detto, ormai non molto frequente nei festival più grossi). La rassegna attraversa l’era di Konrad Adenauer nel cuore della guerra fredda e sullo sfondo scorre il ruolo degli Stati Uniti in un paese strategico come la Ddr. Questo consente di scoprire un cinema che stava faticosamente cercando di (ri)definirsi insieme al paese.

Per parlarci della paura del diverso, McCarty sceglie di mettere al centro non solo i bambini come forza motrice, ma il loro punto di vista

E veniamo a The girl with all the gift (la proiezione in piazza Grande è stata preceduta dalla premiazione di un altro ospite del festival, l’attore statunitense Bill Pullman). In quest’epoca di realtà più che mai horrorifica, c’è spesso qualcosa di vano e patetico in tanto cinemino horror. Poca inventiva e finezza, soprattutto pochissima vera iconoclastia stilistica, tutti elementi forti in tanti film del passato, a cominciare da La notte dei morti viventi (1968), fondamentale film di George Romero.

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Non è il caso del britannico McCarthy, qui al suo secondo lungometraggio ma con un passato nelle serie tv, che riesce nell’intento di creare un interessante e appassionante film distopico coniugando riferimenti politici contemporanei – la prigione di Guantanamo – in un film di zombie.

Parte del sistema capitalistico sembra puntare a un sistema socioeconomico globalizzato stile Calcutta e allora McCarthy, adattando il romanzo omonimo di Mike Carey, ci racconta un mondo dove l’umanità è confinata in piccole oasi di resistenza mentre intorno imperano orde di zombie.

Se il film più bello sul cannibalismo provocato da un mondo dominato dalla dittatura del mercato e delle multinazionali resta forse 2022 i sopravvissuti, del 1973, di Richard Fleischer, con un finale struggente quanto spaventoso, per parlarci della paura del diverso (nero, musulmano, rifugiato o transgender che sia) McCarty sceglie di mettere al centro non solo i bambini come forza motrice, ma il loro punto di vista. E rivela un volto di bambina (mulatto) che ci fa sperare in un cinema (di genere) capace di riacquistare vitalità.

L’involontaria comicità delle spie

Ben fatto, avvincente – davvero elegante il design dei titoli – è invece Jason Bourne di Paul Greengrass, altro film presentato in piazza Grande, che ci racconta di una spia gabbata dal sistema delle spie (Matt Damon), che diviene scheggia impazzita contro di esso riuscendo a far fuori il direttore della Cia (Tommy Lee Jones). Piuttosto già visto nell’insieme, molto ben girato ma privo di senso delle atmosfere che anche un film d’azione dovrebbe avere (elemento che oggi invece spesso latita), riflette anche nella forma l’asetticità di quel mondo. Il film non impressiona più di tanto, malgrado proceda con ritmo implacabile. Anzi, prendendosi piuttosto sul serio raggiunge una vetta di comicità involontaria quando il direttore della Cia aspetta con tranquillità e solo una pistola sulla scrivania il suo angelo vendicatore.

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Tanto più, anche quando non si tratta d’importanti banchieri o banchieri del petrolio come Allen Dulles o George Bush senior, se si conosce un minimo il percorso di chi diviene capo delle spie d’America.

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