10 gennaio 2014 17:49

Un checkpoint del Fronte islamico a Idlib, Siria, il 6 gennaio 2014 (Fadi Mashan, Reuters/Contrasto).

Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani è salito a quasi settecento morti il bilancio degli scontri tra lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil) e gli altri gruppi dell’opposizione siriana, cominciati il 3 gennaio. L’organizzazione jihadista starebbe perdendo terreno in tutto il nordest della Siria tranne che nella sua roccaforte di Raqqa, pagando lo spostamento di molti dei suoi combattenti in Iraq dove aveva in parte occupato alcune città della provincia di Al Anbar, tra cui Falluja.

L’offensiva, condotta da gruppi ribelli laici e islamisti finora profondamente divisi, è stata così improvvisa e ben coordinata da sollevare il dubbio che sia stata orchestrata dall’esterno, riferisce Jim Muir sulla Bbc, soprattutto perché arriva a pochi giorni dalla conferenza di pace in programma il 22 settembre a Montreux. In realtà l’oppressione dell’Isil in molte aree sottratte al controllo del governo siriano era ormai diventata insopportabile, scrive l’Economist. La persecuzione dei civili, l’intimidazione degli altri gruppi dell’opposizione e lo scarso impegno nella lotta contro l’esercito di Bashar Al Assad avevano convinto molti che il gruppo estremista islamico fosse stato infiltrato dai servizi segreti siriani e iraniani per convincere il resto del mondo che mantenere Assad al potere fosse il male minore.

Su Foreign Policy Hassan Hassan scrive che la “fine del regno di terrore dell’Isil” può essere una svolta cruciale nel conflitto, “spianando la strada per l’affermazione dei gruppi più moderati che erano stati emarginati” dagli islamisti. Il governo statunitense sembra condividere questa opinione, dato che sta valutando se sbloccare l’invio di aiuti non letali ai ribelli che era stato interrotto proprio a causa del timore che potesse favorire i jihadisti, rivela il New York Times.

Il successo dell’offensiva potrebbe in effetti migliorare l’immagine dei ribelli in occidente e concentrare il sostegno degli islamisti sul Fronte islamico appoggiato dall’Arabia Saudita. Ma l’Isil non è l’unico gruppo jihadista attivo in Siria, e la sua eventuale sconfitta non renderà più facile tracciare una linea tra i “buoni” e i “cattivi”. Il Fronte al Nusra, la filiale “ufficiale” di Al Qaeda in Siria, ha appoggiato l’offensiva contro l’Isil solo dopo il fallimento dei suoi tentativi di mediazione, e molti dei gruppuscoli che fanno riferimento al Fronte hanno invece espresso solidarietà all’Isil. Le profonde divisioni che hanno finora indebolito l’opposizione torneranno presto a farsi sentire. I ribelli hanno rimandato al 17 gennaio la decisione sulla loro partecipazione alla conferenza di Montreux e sembrano lontanissimi dall’elaborare una posizione comune.

Chi ha sicuramente tratto beneficio dagli scontri tra i ribelli, almeno nel breve periodo, è l’esercito di Assad, che consolida i suoi successi nella parte occidentale del paese e intensifica l’assedio di Aleppo e Homs, dove almeno 45 ribelli sono stati uccisi il 9 gennaio mentre tentavano una sortita. Secondo alcuni osservatori la guerra potrebbe presto arrivare a una situazione di equilibrio in cui le parti non avranno più obiettivi territoriali da raggiungere con lo scontro diretto, rendendo più realistica l’ipotesi di una partizione di fatto della Siria.

Gabriele Crescente (1980) collabora con Internazionale dal 2006. È su Twitter.

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