20 aprile 2013 11:30

Voleva smacchiare il giaguaro. Aveva dichiarato conclusa l’era di Berlusconi. Non vedeva l’ora di varcare le porte di palazzo Chigi. Ma è successo l’esatto contrario.

Mentre Pier Luigi Bersani è fallito platealmente, il giaguaro, in testa ai sondaggi, alle prossime elezioni si presenterà come candidato premier. È un disastro che ha radici lontane e che riflette i mali antichi della politica in Italia. Un paese in cui per accordarsi sul presidente della repubblica ci si scambiano pizzini in posti riservati e, nei momenti cruciali, dal cilindro logoro esce immancabilmente un ex: un ex premier, un ex presidente del senato, preferibilmente entrato in politica negli anni settanta.

Un paese in cui l’elezione del capo dello stato è da sempre un’arena in cui esibire al meglio gli istinti peggiori della politica italiana: dai veti incrociati ai franchi tiratori, dai balletti della nomenclatura alle coltellate del voto segreto. Un’allegra giostra che brucia i candidati in un insensato e impietoso circo mediatico. Un paese in cui i mezzi d’informazione dedicano ampio spazio alla gustosa beffa del conte Mascetti e si divertono con un ghigno quando la presidente Laura Boldrini è costretta a leggere a voce alta il nome di un pornodivo. In cui Bersani e Alfano si abbracciano pateticamente davanti alle telecamere come due animali rari in uno zoo.

È un rituale ottocentesco infestato dalla retorica istituzionale. Nel quale il Pd, dopo aver accolto la candidatura con un’ovazione, sacrifica perfino il suo padre nobile, Romano Prodi. Un rituale in cui è consigliabile fotografare la propria scheda per difendersi dalle accuse di tradimento.

È la quintessenza di una politica che vive da anni di poche idee chiare e mai condivise e le soluzioni non sono mai lineari ma sempre tortuose. Perfino le cifre sembrano aleatorie e si cercano vie miracolose per mimetizzarle. Con Bersani che per settimane cerca imperterrito una formula per raggirare le cifre impietose del risultato elettorale e corteggia inutilmente Grillo per giorni, per poi ignorarlo quando con Rodotà si apre finalmente uno spiraglio.

È lo specchio di un paese che da anni vive una crisi di governo perenne che alimenta un esercito di voltagabbana. Dove la parola dialogo sembra un offesa e l’eterna ricetta sembra quella di rinviare e di prendere tempo. Dove un’opulenta e potente classe dirigente può stare tranquilla di non pagare mai per i propri errori e inefficienze.

Ora la sinistra è arrivata al capolinea. Una sinistra che negli ultimi anni non è riuscita a produrre un messaggio chiaro, una ricetta comprensibile, una visione convincente, una formula praticabile. Il partito è diventato un campo di combattimento tra rottamatori e dinosauri, giovani turchi e vecchi popolari e i protagonisti si divertono a offendersi quotidianamente in pubblico.

Dopo la sua autorottamazione la sinistra dovrà reinventarsi. E come primo passo dovrebbe capire che il presidente della repubblica non deve uscire dalla nomenclatura o dalla gerontocrazia. Molto meglio che sia - com’è successo in Germania - un cittadino che abbia dei meriti.

Temo che non succederà. Perché in mezzo alle macerie l’unica soluzione sembra quella di condannare Giorgio Napolitano a rimanere sul Colle. Un intero paese che chiede a un uomo di 88 anni di rinviare il suo meritato riposo. Povera Italia.

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