16 luglio 2015 11:43

Horst Bredekamp, Immagini che ci guardano
Raffaello Cortina Editore, 382 pagine, 29 euro

Fino agli anni ottanta del secolo scorso le immagini erano studiate quasi esclusivamente come opere d’arte. Poi, sotto la spinta della loro moltiplicazione geometrica, che negli ultimi decenni ha assunto l’aspetto di un bombardamento, la discussione si è allargata a storici, filosofi, sociologi, antropologi. Si è cominciato a vedere le immagini non più solo come mezzi per raffigurare più o meno bene qualcosa, ma anche come oggetti potenti, che colpiscono profondamente i nostri sensi e le nostre emozioni.

Di fronte a questa rivoluzione gli storici dell’arte hanno preso strade diverse: alcuni, come Hans Belting, hanno dichiarato la fine della storia dell’Arte e l’inizio di una storia antropologica delle immagini; altri, come David Freedberg, hanno cominciato a interessarsi alle reazioni di fronte alle immagini con i metodi delle scienze cognitive. Qui Horst Bredekamp prova un’altra strada, quella di una teoria filosofica capace di spiegare il potere di tutte le immagini di entrare in dialogo con gli spettatori attraverso quelli che definisce “atti iconici”: l’atto di rinviare a qualcosa (schematico), quello di sostituire qualcosa (sostitutivo), quello di esprimere autonomamente la sua forma (intrinseco). Con ottimismo illuminista riconduce a questi tre tipi di immagini di ogni genere: dai sassi appena sbozzati dagli uomini preistorici, alle installazioni dei videoartisti.

Questo articolo è stato pubblicato il 3 luglio 2015 a pagina 84 di Internazionale, con il titolo “Osservare osservati”. Compra questo numero | Abbonati

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