16 marzo 2015 10:44

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Con tre film soltanto, Bennett Miller, quarantanovenne newyorkese, si è affermato come uno dei rarissimi veri registi del cinema statunitense di oggi, capace di stare “dentro il sistema” senza farsi guidare dalla sua ideologia condizionata dal mercato e dai suoi miti per più aspetti malati e si direbbe esasperati oggi come mai prima.

Dopo Truman Capote (con un formidabile Philip Seymour Hoffman, che nella vita vera non ha saputo o voluto resistere al successo) e dopo L’arte di vincere (dove al confronto tra un intellettuale e due giovani criminali si sostituiva quello interno al mondo dello sport, il baseball, anzi il “moneyball”, con Brad Pitt che si dimostrava migliore dell’immagine del bisteccone made in Usa in cui altri film l’avevano chiuso), insieme a un piccolo gruppo di collaboratori fidati, anzi di amici, Miller è tornato al mondo dello sport ma azzardando una visione molto più ampia, a partire ancora una volta da una storia vera, e sfidando la convenzione truffaldina dei “film tratti da una storia vera” che rozzamente la mistificano.

Ha scelto come interpreti due attori poco noti ma perfetti per i loro ruoli, Steve Carell, l’incubo, e Channing Tatum, il succubo. La malattia degli Stati Uniti, che ha contagiato gran parte del mondo, del “capitalismo come religione” e l’ossessione di vincere, anzi di stravincere, è in Foxcatcher declinata mettendo a confronto due personaggi legati entrambi alla lotta libera, estremamente diversi tra loro ma uniti da questa passione: il grifagno supermiliardario John du Pont e il campione un po’ stolido e ingenuo Mark Schultz, protagonisti di una “storia vera” esemplare e morbosa.

Il rapporto che li unisce è quello, in definitiva, tra “servo e padrone” (il film che Foxcatcher potrebbe ricordare di più è Il servo di Joseph Losey su sceneggiatura di Harold Pinter, che era ispirato, dissero gli autori, alle pagine di Hegel che avevano esplorato questo legame).

Nel film non ci sono grandi discorsi e nessun personaggio che spiega e discetti: solo un minuzioso racconto che esplora in ordine cronologico la nascita, l’evoluzione e la crisi di questo legame, la vocazione al dominio e alla manipolazione del più forte economicamente che si serve del povero, ma dotato come di una rivalsa, di uno strumento, di un oggetto da plasmare a suo piacimento. Cresce il disagio, nello spettatore, di fronte all’incontenibile violenza intima e però evidente, nell’appartenenza dei protagonisti a origini totalmente diverse, che è la violenza del denaro. Così come cresce il disagio del giovane lottatore, fino al rifiuto e fino alla sconfitta (viene in mente Gioventù, amore e rabbia, un altro film britannico tratto da La solitudine del maratoneta di Alan Sillitoe, dove il giovane addestrato da campione si ribella alle ambizioni del suo coach. Lì però il rifiuto era rivolta cosciente e a suo modo politica, mentre qui è solo psicologica, e sta allo spettatore capire, ragionare).

Miller sa condurci dentro questa morbosa vicenda per tocchi ed episodi significativi, suscitando in noi l’imbarazzo più che la chiarezza, che viene solo alla fine. La sua è una dimostrazione dal di dentro di una cultura del potere che non dà scampo e che nega la possibilità di rivolte più chiare: una tela di ragno di cui anche il ragno è prigioniero.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it