24 ottobre 2016 16:05

Attenzione: questo articolo contiene spoiler.

L’io di Io, Daniel Blake rende oggettiva la soggettività del personaggio nella convinzione che l’affermazione dell’io dell’individuo metta in crisi l’io dei narcisisti, e che l’io del cittadino che ha fatto la sua parte nel quadro di una società debba tornare a essere il centro dell’attenzione dei governi, se vi fossero ancora governi democratici rispettosi del valore dell’individuo lavoratore.

Io, Daniel Blake è il titolo dell’ultimo film di Ken Loach e ha vinto la Palma d’oro a Cannes. Giurie strampalate, assai più attente agli umori delle mode e della corporazione a cui appartengono che non alle novità e necessità del cinema, hanno spesso soprassalti di buonismo alla cui autenticità (i loro membri sono sempre “ricchi e famosi”) è molto difficile credere. Ma devono, come suol dirsi, salvarsi l’anima o far finta di averla, apprezzando ipocritamente le denunce sociali, perché sanno che i tempi sono duri e premiare chi parla di chi sta male fa parte del gioco, sanno che demagogia e populismo servono a confermare il potere invece che aggredirlo. Abbonati ai premi di Cannes per gli stessi motivi di Loach sono i fratelli Dardenne, belgi, più bravi e personali di Loach. Anche i loro film erano più forti ieri di oggi. Il successo spinge a ripetersi, a cercare varianti e non nuove strade.

Loach sa il fatto suo e ha imparato rapidamente come gestire al meglio il suo successo, come variare una formula che ha trovato il consenso del pubblico e della critica, bisognosi anche loro di consolazioni ideologiche. Ha imparato il mestiere negli anni sessanta delle novità giovanili che credevamo rivoluzionarie (e lo erano, prima del ritorno a Lenin e alla lotta al potere per ambire a un altro e non troppo diverso potere). Kes e Poor cow restano forse i suoi film migliori, sconsolati quadri di realtà in bianco e nero (più nera che bianca). Risentivano della grande tradizione delle inchieste operaie britanniche, dell’anti-psichiatria dei Cooper e Laing, della scuola del documentario sociale inglese (Humphrey Jennings il nome di punta) che negli anni cinquanta e sessanta trasferì la sua energia in tv nel docu-drama un po’ documentario e un po’ film a soggetto, radicalizzandosi grazie al free cinema dei Reisz, Anderson, Richardson, presto “recuperati” nel sistema commerciale dominante.

L’avvocato delle cause perse
Reso avvertito da quell’esempio, Loach ha saputo muoversi con maggiore abilità della loro tra impegno e carriera, tra convinzioni politiche e successo commerciale. Un film di montaggio abbastanza recente, Lo spirito del ‘45, storia di un grande momento della sinistra prima che il trionfo del neocapitalismo ne corrompesse la diversità, serve a capire il retroterra più lontano di Loach e di quelli come lui, a capire come mai nella sinistra britannica sia rimasta presente una così forte attenzione per il proletariato e per la sua cultura, secondo una tradizione che non amava in passato mescolarla a quella della borghesia e, al contrario di quanto è avvenuto in Italia, tantomeno amava farsene schiacciare.

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Non sempre Loach ci ha convinto, quando con una certa riduttiva speditezza affrontava temi fondamentali: non è mai stato un Orwell né tantomeno un Engels, ma ha saputo tener testa ai nuovi tempi con un’abile, anche se talora discutibile, commistione di etica sociale e di fiuto commerciale. C’è anche da ricordare che a scrivere i testi dei suoi film è quasi sempre Paul Laverty, che di mestiere ha fatto l’avvocato. Nei loro film, l’aspetto “avvocatesco” è evidente: sono film che sanno di requisitoria. Sono, come Io, Daniel Blake, perfettamente informati su quanto riguarda la condizione delle persone di cui narrano, sui meccanismi stritolanti di una società classista, e in particolare, in quest’ultimo film, sulla pesantezza della burocrazia e dei suoi funzionari, servitori della legge al punto di diventare persecutori di coloro che dovrebbero servire. Quest’ultimo film è una difesa a tutto campo degli interessi di coloro che la burocrazia sta schiacciando, qui, con i personaggi di Daniel e della sua giovane amica Katie con i suoi bambini, vittime quanto lui di quei meccanismi.

I finali dei film neorealisti lasciavano sempre un filo di speranza. Oggi questa speranza sembra sparita

Alle vicende di Daniel Blake, in malattia per un infarto che ha avuto, ma a cui non si dà aiuto perché non cerca lavoro e perché non conosce le assurde regole e trafile di una schiacciante burocrazia (cui si aggiunge una persecuzione in più, la modernizzazione tecnologica, si aggiunge la digitalizzazione delle domande e dei documenti, si aggiungono le diavolerie dei computer), alla sua quotidianità di vicinato, all’amicizia con chi cerca d’arrangiarsi sfuggendo alla legge e facendosi più furbo della legge o all’inimicizia con i prepotenti, si assommano quelle di Katie, oppressa da altre burocratiche assurdità e che giunge a prostituirsi per poter sfamare i propri figli. Ma è l’amicizia tra Daniel e Katie il cuore del film, e questo cuore è né più né meno che amore del prossimo, interesse per i dolori del prossimo, è solidarietà tra le vittime, tra gli oppressi, tra i poveri come nel lontano ottocento: un punto da cui Loach sa bene che si deve e si può ripartire, ricominciare.

Il finale è disperato: Daniel muore d’infarto poco prima che si ridiscuta il suo caso e viene pianto da pochi proletari come lui, soprattutto da Katie che ne tesse l’elogio funebre, l’elogio di un cittadino non rispettato dallo stato (di cittadino più che di proletario).

I finali dei film neorealisti (si pensa per esempio a Umberto D. di De Sica) lasciavano sempre un filo di speranza, secondo una precisa ideologia zavattiniana. Oggi questa speranza sembra sparita, restano la lotta per la sopravvivenza (anche qui come nell’ottocento, come ai tempi di Darwin) e per la difesa da uno stato nemico. C’è molto di avvocatesco in questo film e nell’opera di Loach, e più di un sospetto di una tradizione retorica appunto avvocatesca, e la regia di Loach è tradizionale, ben fatta, il risultato una confezione senza grinze. Loach non contribuisce certamente a far procedere, chiamiamola così, l’arte cinematografica, ma averne, di questi avvocati, in Italia! Tiene duro abilmente sulla sua strada, e non possiamo, in definitiva che essergliene grati, molto grati.

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