12 ottobre 2015 17:02

Mentre mi preparavo a scrivere un comunicato stampa per conto della mia organizzazione, la Human rights agenda association, per protestare contro l’arresto del direttore del quotidiano Today’s Zaman, Bülent Keneş, ho saputo dell’attentato alla stazione di Ankara. Sono subito uscito di casa per vedere con i miei occhi il luogo dell’esplosione: la scena era terribile.

Secondo le ultime informazioni sono morte almeno 97 persone. È il più grave attentato terroristico della storia della repubblica. Sembra ovvio che gli attentatori abbiano voluto fare più vittime possibile, perché pare che abbiano inserito delle biglie di ferro negli ordigni. Due esplosioni si sono susseguite nell’arco di trenta secondi, creando il caos.

Dopo questo attacco, i ministri della giustizia, dell’interno e della salute hanno dichiarato nel corso di una conferenza stampa che non c’è stata alcuna “mancanza di sicurezza o debolezza”. Hanno respinto l’accusa secondo cui le autorità sono state incapaci di prendere le misure necessarie per scongiurare l’attentato e hanno escluso di dimettersi a causa di queste presunte negligenze. Ma se non è questo, mi chiedo quale potrebbe essere il momento giusto per dimettersi.

Ormai in Turchia la libertà di stampa è sistematicamente perseguitata

Il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) non ha accettato i risultati delle elezioni generali del 7 giugno, quando ha perso la maggioranza assoluta in parlamento, e ha deciso di indire un altro voto, ma è stato inutile. Questo è il punto a cui hanno condotto il paese dopo 13 anni: la Turchia ormai somiglia a paesi come la Siria, l’Iraq o l’Afghanistan.

Potrebbe sembrare un’esagerazione, ma lo dico pensando sia agli attacchi terroristici sia al clima politico e intellettuale che si è creato nel paese.

Keneş, il caporedattore del più diffuso quotidiano turco in lingua inglese, è in carcere per aver criticato su Twitter il presidente Recep Tayyip Erdoğan e il governo dell’Akp. Secondo l’articolo 299 del codice penale turco, infatti, insultare il presidente della repubblica è un reato. È una legge anacronistica e ridicola. Il presidente è un politico come gli altri, e dev’essere possibile criticarlo senza rischiare il carcere. L’Akp ha introdotto questa norma per imbavagliare gli oppositori di Erdoğan.

Ormai in Turchia la libertà di stampa è sistematicamente perseguitata. Chiunque critichi il governo dell’Akp ed Erdoğan corre un rischio. Amnesty international, Human rights watch, Freedom house e altre ong sono d’accordo nell’accusare il governo di violazione dei diritti fondamentali. Oggi i direttori di alcuni giornali sono imprigionati e domani toccherà agli altri.

Una politica estera sbagliata ha messo la Turchia nel mirino del terrorismo e nessuno può sentirsi al sicuro. Ma se qualcuno osa criticare quella politica può essere incriminato e imprigionato. Questo tipo di regime ha un nome, ma se lo scrivessi sono sicuro che sarei incriminato.

Il governo crede di aver individuato i responsabili dei massacri di Diyarbakır e di Suruç, avvenuti rispettivamente il 5 giugno e il 20 luglio. Ma identificare gli attentatori suicidi non significa che tutti i responsabili siano stati scoperti. Chi ha preparato l’ordigno, chi li ha aiutati e chi si nasconde dietro queste azioni? Il gruppo Stato islamico o un’altra organizzazione terroristica? Lo schema è lo stesso degli attentati di Ankara, e se l’Akp avesse davvero individuato i responsabili dei primi due attentati non staremmo contando altri morti. Qualcuno mi può dire chi è il responsabile, dunque?

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito su Today’s Zaman. Clicca qui per vedere l’originale.

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