09 luglio 2015 16:20

Gioco, set e partita: tutto è a favore dei generali birmani. L’8 luglio alla fine hanno annunciato la data delle elezioni politiche, un tempo ritenute il vero segno della democrazia in Birmania: l’8 novembre. Ma ancora una volta il vincitore sarà l’esercito.

La formazione politica creata per sostenere i generali, il Partito unitario della solidarietà e dello sviluppo, non conquisterà la maggioranza dei seggi nel nuovo parlamento. Anzi, potrebbe ottenerne davvero pochi. Però gli ufficiali militari in servizio avranno comunque a disposizione un quarto dei seggi, come prevede la costituzione del 2008 (scritta dall’esercito), e questo sarà abbastanza per mantenere in piedi il regime militare.

Il mese scorso un portavoce del presidente birmano, l’ex generale Thein Sein, ha provato a spiegare la cosa in termini positivi durante un’intervista. “In passato l’esercito controllava il paese al cento per cento”, ha dichiarato a Peter Popham dell’Independent. “Oggi lo controlla solo al 25 per cento”. Ma non è vero: lo controlla ancora in maniera totale.

Quegli ufficiali (che indossano le loro uniformi in parlamento e votano in blocco seguendo le indicazioni dei vertici dell’esercito) continueranno a dominare la politica perché il 25 per cento dei voti, secondo la costituzione del 2008, può bloccare qualsiasi modifica alla legge fondamentale.

E se non dovessero trovare o comprare abbastanza alleati in parlamento per formare una maggioranza e legiferare secondo la volontà dell’esercito, hanno comunque una soluzione di ripiego. La costituzione permette ai militari di sospendere semplicemente il governo e prenderne il posto quando meglio credono. O meglio, tecnicamente ciò può accadere di fronte a una “minaccia alla sicurezza”, ma di solito i militari non hanno problemi a trovarne una.

Il dilemma di Aung San Suu Kyi

Due settimane fa, in parlamento, i partiti civili hanno cercato di modificare queste parti della costituzione. Hanno anche cercato di abolire la clausola scritta per impedire che la “Mandela della Birmania”, la premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, diventi presidente. I suoi due figli hanno infatti il passaporto britannico e la costituzione prevede che nessuna persona con legami affettivi “stranieri” possa ricoprire questa carica. In pratica i soldati hanno usato il loro 25 per cento per bloccare tutti i cambiamenti.

Un tempo era un’icona di grande statura morale. Adesso è una politica pragmatica che deve sporcarsi le mani. Non fa un bell’effetto, ma era inevitabile.

Ora Aung San Suu Kyi ha tempo fino all’11 luglio per decidere se guidare la Lega nazionale per la democrazia (Nld) alle elezioni di novembre o se boicottarle, come ha fatto nel 2010. In linea di principio, non dovrebbe essere una decisione difficile. Il suo partito potrebbe ottenere una vittoria schiacciante, anzi è probabile che ciò accada, ma lei non potrebbe comunque diventare presidente e qualsiasi governo guidato dall’Nld rischierebbe costantemente di essere deposto dai generali se mettesse in discussione i loro privilegi.

Quando l’anno scorso le è stato chiesto a che punto fosse la transizione alla democrazia, la leader birmana ha risposto con una sola parola: “Bloccata”. E ad aprile, in un’intervista, ha chiaramente dato la colpa ai paesi che un tempo la sostenevano: “Vorrei solo ricordarvi che ripeto dal 2012 che servirebbe un po’ di sano scetticismo, e che molti dei nostri amici occidentali sono troppo ottimisti sul processo di democratizzazione”.

È vero che la semplice promessa di democratizzazione è bastata a rimuovere le pluriennali sanzioni economiche dell’occidente contro la Birmania e a scatenare un’ondata d’investimenti stranieri nel paese. Dopo cinquant’anni di regime militare, durante i quali l’esercito si è arricchito a dismisura, la Birmania è oggi il paese più povero del sudest asiatico (un tempo era il più ricco), ma possiede immense risorse naturali non sfruttate.

Gli investitori stranieri sono dunque accorsi in massa, e l’economia si sta effettivamente trasformando. Ma i militari sono ancora al potere. E anche Aung San Suu Kyi ha compiuto dei gravi errori. Ha preso le promesse dei generali abbastanza sul serio da consentire al suo partito di partecipare alle elezioni suppletive del 2011, ottenendo lei stessa un seggio in parlamento. Avrà sicuramente capito che era una scommessa, e sfortunatamente l’ha persa.

Per questo ora la sua unica alternativa è seguire la strada presa nel 2011: partecipare alle elezioni di novembre, nonostante tutte le limitazioni imposte al potere civile, e impegnarsi per cambiare dall’interno un sistema concepito dall’esercito, nonostante questo significhi rafforzarne la credibilità.

Un tempo Aung San Suu Kyi era un’icona di grande statura morale. Adesso è una politica pragmatica che deve sporcarsi le mani. Non fa un bell’effetto, ma era inevitabile che finisse più o meno così una volta che la sua lotta per rendere la Birmania un paese democratico avesse ottenuto qualche risultato. Ora che qualche risultato è stato ottenuto, era inevitabile che i militari reagissero. Non l’hanno mai considerata un’amica o un’alleata.

L’esercito birmano ha guidato il paese per cinquant’anni, traendone enormi benefici. Ha vinto questa battaglia, ma la Birmania sta cambiando: i capitali e l’influenza straniera e una stampa più o meno libera stanno creando nuove dinamiche all’interno della società. Aung San Suu Kyi è ancora in campo, e la partita non è finita.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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