21 giugno 2016 17:22

Le serie tv sono un buon modo per analizzare il mondo. Spesso colgono in anticipo alcune dinamiche in atto nella società.

Anni fa, quando arrivò la serie Sex and the city, tutti cominciarono a parlare di femminismo 2.0, di libertà sessuale, di indipendenza delle donne. I rotocalchi iniziarono a sdoganare argomenti fino a quel momento tabù come i sex toys o le posizioni erotiche. E a tutti quella serie sembrò il non plus ultra della libertà occidentale. Samantha (sì, soprattutto Samantha), Carrie, Miranda e Charlotte erano le paladine di un nuovo modo di essere donna. Io ho guardato la serie più di una volta, so a memoria intere puntate. Vabbè, quasi a memoria.

Mi fa ridere ancora tantissimo quella in cui Charlotte si rintana in casa con il suo vibratore a forma di coniglio. Ma pur divertendomi molto, sono consapevole dell’impianto classista della serie, un impianto legato a doppio filo con quella New York della finanza che ha gettato in bancarotta mezzo mondo. Infatti, prima di andare a letto con un uomo Carrie, Miranda, Charlotte e perfino Samantha devono sapere quanto guadagna e soprattutto dove abita. Manhattan è ok, già fuori Manhattan è un problema. E se il conto in banca non ha tanti zero, non vale la pena.

Ora, dopo tanti anni di serie americane, sono approdata a quelle inglesi. Il merito è stato di Downton Abbey una serie angloamericana che ha avuto un successo clamoroso nel Regno Unito. Le avventure della famiglia Crawley e della sua servitù mi hanno preso completamente. Quella sfrenata e signorile eleganza, quei modi sagaci e puntuti, e poi adoro letteralmente Violet Crawley, contessa madre di Grantham (una fantastica Maggie Smith), con le sue battute micidiali.

Proprio per la “piccolezza” di oggi, al Regno Unito quel passato imperiale sembra ancora più affascinante

La cornice in cui si inserisce la serie è quella in cui la Gran Bretagna era sinonimo di prestigio, ricchezza e soprattutto impero, sì, quell’impero dove non tramonta mai il sole. Una serie di fatto nostalgica. Dove “Britannia rules”, la Gran Bretagna comanda, anche se non lo si dice esplicitamente. Una situazione che ricorda quanto scriveva il grande studioso postcoloniale Edward Said, nel libro Cultura e imperialismo, a proposito di Jane Austen e del suo romanzo Mansfield Park, pubblicato per la prima volta nel 1814. Le avventure di Fanny Price e della famiglia Bertram si svolgono nella tenuta di Mansfield Park. Una vita agiata, lussuosa. Una vita che Fanny ammira. In Jane Austen, anche se non si fanno riferimenti espliciti, la colonia è presente: è quella Antigua nominata solo 12 volte nel romanzo. Quell’Antigua da dove arriva il lusso in cui si crogiola la famiglia Bertram (e il resto dell’Inghilterra).

Downton Abbey.

Oggi le cose sono decisamente cambiate.

Oggi il Regno Unito è un paese piccolo, anche se ha come capitale Londra, centro della finanza globale (e come ha ricordato di recente Roberto Saviano, centro anche di traffici globali), quasi una città-stato (ricca) dentro lo stato (povero).

Il gioiello della corona

Ma proprio per la “piccolezza” di oggi, al Regno Unito quel passato sembra ancora più affascinante. Ed ecco che quello che era solo velato in Downton Abbey diventa esplicito in Indian summers, la cui prima stagione è andata in onda su Channel 4 nel 2015. In questa serie si va dritti al cuore di quell’impero di trentacinque milioni di chilometri quadrati che si stendeva su cinque continenti. E il cuore è il gioiello della corona, l’India dai mille tesori, la cassaforte della Gran Bretagna, quella che ha permesso a un’isola di librarsi oltre le sue possibilità e che l’ha salvata dal tracollo svariate volte. Senza l’India forse la Gran Bretagna non si sarebbe salvata dalla furia di Adolf Hitler, tanto per fare un esempio.

Ed è l’impero in una fase già terminale a essere il centro di Indian summers. I personaggi si muovono su un palcoscenico dove, da una parte, quell’impero sembra poter durare per sempre e, dall’altra, si assiste ai primi segnali del movimento di liberazione che porterà gli indiani all’indipendenza. Siamo nel 1932, a Simla, località indiana ai piedi dell’Himalaya, ci sono due famiglie i Whelan e i Dalal. Al centro della scena Cynthia Coffin (Julie Walters), proprietaria del Simla club, un circolo esclusivo dove l’impero si mostra in tutto il suo splendore come un pavone. Erano gli anni in cui nei club non era permessa l’entrata ai cani e agli indiani. Accanto a Cynthia, c’è Ralph Whelan (Henry Lloyd-Hughes), scisso tra quell’impero a cui dà corpo come funzionario coloniale e quell’India che di fatto è la sua vera patria, visto che ha vissuto più lì che in Inghilterra.

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A condividere il palcoscenico ci sono gli indiani, i già citati Dalal, che da una parte preparano la lotta per l’indipendenza e dall’altra non sanno come recidere i nodi di ambiguità che li legano al potere coloniale. La serie usa lo sfondo storico per ambientare le relazioni tra i vari personaggi, relazioni di potere, di amore, di possesso, senza andare veramente a fondo. Ma tra abiti eleganti, gare di polo, arredamento coloniale e natura selvaggia tutto solletica quella nostalgia per l’impero che sembra attraversare la Gran Bretagna alla vigilia del voto per la Brexit.

L’immagine di due mani nere incatenate serviva a pubblicizzare un cocktail dal nome evocativo, “Il ritorno della colonia”

Il clima nostalgico è percepibile non solo in tv, ma un po’ ovunque nel paese. Basti pensare all’evento che a maggio dell’anno scorso ha fatto gridare allo scandalo gli studenti di Oxford. La Oxford union, un’associazione di fama mondiale, ai cui dibattiti intervengono spesso grandi personalità, è stata accusata di razzismo. Doveva ospitare un incontro molto serio sulle cosiddette riparazioni, ovvero si doveva discutere se il Regno Unito dovesse o meno ripagare le sue ex colonie per il passato di sfruttamento.

Alla tavola rotonda erano stati chiamati a intervenire l’ex deputato conservatore sir Richard Ottaway, il politico indiano Shashi Tharoor e lo storico John Mackenzie. Il problema è nato da un cocktail. Prima del dibattito è circolata un’immagine che raffigurava due mani nere incatenate e che serviva a pubblicizzare un cocktail dal nome evocativo, “The colonial comeback” (il ritorno della colonia), a base di limonata, liquore alla pesca e brandy, al costo eccezionale di 2,50 sterline invece delle solite 3,33.

Naturalmente si è scatenato il finimondo. Gli studenti, soprattutto quelli appartenenti a minoranze, si sono indignati e hanno riempito il web di tweet al vetriolo in cui condannavano come inaccettabile il fatto che secoli di immondo sfruttamento venivano liquidati senza rispetto con un cocktail. E, non a caso, la Oxford union è stata accusata di essere ancora la casa dei privilegi.

Dagli abiti in stile La mia Africa ai ristoranti della catena Dishoom che ricordano la Bombay degli anni trenta, in puro stile coloniale (ristoranti che per la qualità e il prezzo sono stati considerati tra i migliori in Gran Bretagna), tutto odora di impero.

In un recente sondaggio di YouGov Uk il 59 per cento del campione preso in esame ha dichiarato che l’impero è qualcosa di cui andare orgogliosi, mentre solo il 19 per cento si vergogna di quel passato di soprusi. Il 34 per cento degli intervistati è invece favorevole a una Gran Bretagna di nuovo imperiale.

La campagna per la Brexit

Questa nostalgia si ritrova soprattutto in politica.

Un esempio per tutti, la presa di posizione nazionalista e imperialissima di Boris Johnson, ex sindaco di Londra e tra i fautori più agguerriti della Brexit, nei confronti del presidente statunitense Barack Obama. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la decisione della Casa Bianca di rimuovere un busto di Winston Churchill dalla stanza ovale. Sul Sun di Rudolph Murdoch, Boris Johnson ha dipinto Obama come un mezzo keniano invidioso, che trama contro l’impero britannico e contro la memoria del Churchill nazionale.

Un linguaggio, quello dell’ex sindaco di Londra, che è stato subito dichiarato inopportuno e razzista.

Ma il linguaggio si fa atmosfera. E non si respira una bella aria nel paese.

Nella campagna per la Brexit, una delle più xenofobe mai viste in Gran Bretagna, si è attinto a piene mani proprio dall’immaginario coloniale. Ed ecco apparire la vignetta di Ben Garrison che riassume in modo brutale tutti i cavalli di battaglia dei sostenitori dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. La vignetta si intitola Abandon ship, e ad abbandonare la nave sono naturalmente gli inglesi, con una scialuppa di salvataggio che li porta verso il sole.

La vignetta Abandon ship. (Ben Garrison)

Scappano dall’Europa, che è ritratta da Garrison come una barca che corre verso il precipizio, comandata da una Frau Merkel inviperita e piuttosto disperata. Sulla nave succede di tutto. La Grecia vomita, la “diversità” bombarda i burocrati di Bruxelles facendo un bel buco sullo scafo. Onde minacciose, le onde dell’immigrazione, e il tornado della crisi economica minacciano la nave. Inoltre dei pirati inturbantati attaccano l’imbarcazione Europa e la minacciano in vari modi: da una parte c’è un uomo con il turbante (arabo per il vignettista) con un sacco di denaro in mano pronto a comprarsi tutto, dall’altro un secondo uomo con il turbante minaccia una sirena molestandola con le sue voglie lussuriose, mentre il terzo inturbantato manda a morire un uomo biondo e tremante, la Svezia, gettandolo in pasto a uno squalo che simboleggia il politicamente corretto.

Andrew Brown sul Guardian ha paragonato questa vignetta a quelle che circolavano nella Germania nazista. Dove ieri c’era l’ebreo oggi c’è l’arabo (ma anche l’ebreo), perché islamofobia e antisemitismo sono figli della stessa madre razzista.

Altrettanto inquietanti sono le parole dei politici che ancora sognano il “Britannia rules”, spesso autoasselvondosi dal dolore causato alle popolazioni conquistate. Il parlamentare conservatore Liam Fox, per esempio, ha detto candidamente che il suo paese non ha nulla da dimenticare, perché nulla fu. Cancellando completamente secoli di storia, cancellando il colonialismo e il dolore procurato. Ed ecco che personaggi come Francis Drake o David Livingstone risorgono dalle loro ceneri e vengono di nuovi citati e incensati.

Ma se da una parte questa nostalgia dell’impero pervade tutto, dalla tv ai ristoranti, c’è chi resiste, e lo fa a modo suo.

Il movimento Rhodes must fall ha preso di mira il più colonialista tra i colonialisti, Cecil Rhodes, a cui l’impero aveva dedicato anche uno stato, la Rhodesia (gli attuali Zambia e Zimbabwe), l’uomo che si era fatto una fortuna sfruttando le ricchezze dell’Africa, soprattutto i diamanti, autore della celebre frase (quintessenza della razzia coloniale): “Tutte quelle stelle… quegli immensi mondi che restano fuori dalla nostra portata. Se potessi, annetterei altri pianeti”. Mark Twain diceva di lui che era il vice di Dio, ma anche di Satana. Rhodes era un personaggio senza scrupoli. Aveva venduto l’anima per sviluppare e far espandere il suo impero minerario. Era amico dei potenti, dalla regina Vittoria ai Rothschild, e capace di sfruttare le sue aderenze per arricchirsi sempre di più.

Ora quell’uomo – anzi la sua statua – è stato preso di mira. Il 9 marzo del 2015 uno studente e attivista sudafricano di nome Chumani Maxwele ha lanciato degli escrementi contro la statua di Cecil Rhodes, opera di Marion Walgate, che dal 1934 domina una piazza dell’università di Cape Town. Da questo gesto è nata l’idea di un sit in permanente degli studenti per chiedere al rettore e agli organi dell’università non solo di rimuovere la statua, ma anche di decolonizzare il sistema universitario, un sistema in cui l’apartheid non è affatto morto, dove l’accesso è difficile per gli studenti neri e dove il corpo docente è solo in parte formato da neri. Dopo varie proteste la statua è stata rimossa il 9 aprile del 2015. Ma da quel momento il movimento è diventato internazionale.

La retorica dell’invasione

Anche a Oxford gli studenti che aderiscono a Rhodes must fall hanno chiesto la rimozione di una statua di Cecil Rhodes. Ed è significativo che questo sia successo proprio nell’università dove si formavano i quadri coloniali e che ora è dominata da barriere reali per le minoranze. A Oxford sono state fatte marce per la decolonizzazione e per le pari opportunità. Il movimento Rhodes must fall ha ovviamente anche i suoi detrattori. Chi lo critica punta il dito sull’ansia di demolizione, alcuni lo hanno accusato di essere come il gruppo Stato islamico a Palmira, mentre altri ne hanno condannato il settarismo.

Ma Rhodes must fall, che ci piaccia o no, solleva una questione, quella delle cosiddette minoranze, che nella Gran Bretagna nostalgica dell’impero è sempre più evidente. “Britain first”, urlano i sostenitori della Brexit. Ma quel “Britain”, diventato grido identitario, ha armato la mano di un uomo, Tommy Mair, legato a gruppi neonazisti, che ha ucciso pochi giorni fa la deputata laburista Jo Cox. Il grido di Mair è stato alimentato dalle tante parole di odio di questi tempi, e soprattutto da quelle indirizzate ai migranti, visti come unici responsabili del disorientamento culturale. Figure volutamente destoricizzate, come nel manifesto del leader del partito nazionalista Ukip, Nigel Farage, in cui sotto la scritta “Breaking point” (Punto di rottura) si vede una lunga colonna di migranti che avanza, pronta a minacciare i sogni dei britannici. Ed ecco che la retorica dell’invasione torna sul palcoscenico.

L’assassino di Jo Cox era imbevuto di questa propaganda, dove il lessico coloniale di un tempo diventa il lessico culturalista e divisivo di oggi, diventa “questi islamici non hanno la nostra cultura” e alimenta paure e incertezze. Parole che spesso diventano violenza e possono spezzare una vita, come quella di Jo Cox appunto, una morte che la scrittrice italiana Helena Janeczek ha definito femminicidio politico in un suo post su Facebook.

L’impero e il senso di nostalgia coloniale dominano il paesaggio, non solo nel Regno Unito, ma nell’intero continente. Se vogliamo salvarci da questo caos dovremo immaginare una volta per tutte un’identità europea moderna multiculturale e interconnessa, dove tutti possano avere uguali diritti e uguali doveri.

L’impero britannico non c’è più, per fortuna. Sta a noi, nel regno Unito e nel resto d’Europa, creare un futuro di condivisione e di bellezza. Un futuro dove le generazioni future possano essere felici.

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