22 ottobre 2017 10:17

“Ma Roma?”, mi ha chiesto Chiara Comito. Più che una domanda, sembrava una specie di sorridente protesta. Stavo parlando di alcune delle città che avevo visitato nel nord d’Italia per presentare il film di Andrea Segre L’ordine delle cose e non avevo menzionato Roma. Rispondevo a una domanda del pubblico durante un evento organizzato alla libreria Griot con Annalisa Camilli di Internazionale e Chiara, esperta di letteratura araba, che si era offerta di farmi da interprete.

Mi aveva invitato Giusy Muzzopappa, mia amica e traduttrice. “È il mio posticino preferito a Roma”, mi aveva detto, e quella frase mi era bastata per farmi venire una gran voglia di vederlo. Per descriverlo prenderò in prestito le sue parole: “Griot è una piccola libreria indipendente dedicata all’Africa e al Medio Oriente. A gestirla è un gruppo di amanti dei libri che per motivi personali o professionali sono legate a queste aree. Io sono una di loro, coinvolta in questa avventura dal 2010. Qui si organizzano regolarmente presentazioni di libri e incontri con autori e artisti provenienti dal continente africano, dal Medio Oriente e dalle diaspore”.

Mi piaceva l’idea che la mia prima stretta di mano con Roma fosse un incontro con alcuni dei lettori romani delle cartoline che scrivo per Internazionale. Va bene, “ma Roma”?

Essere attaccato troppo a lungo a qualcosa o a qualcuno elimina la necessità di esplorarlo, e si finisce per darlo per scontato

Il fatto è che ci ho messo un po’ per cominciare a capire Roma. In prima battuta sembra avere tutte le caratteristiche – e anche i difetti – delle grandi città. Se la conosci meglio, però, puoi scoprire anche l’intimità e il calore dei centri più piccoli. Basta sapere dove cercare. Ci sono bellissimi angolini che si rischia di perdere se si seguono, come fanno i turisti, gli itinerari più ovvi.

Per tutti Roma è il Colosseo, il Vaticano, la Vespa, un luogo dove la gente mangia spaghetti e pizza urlando di continuo “Mamma mia!”, il tutto con una colonna sonora di “Lasciatemi cantare…” in sottofondo. I turisti non devono fare altro che seguire tour organizzati, camminare a frotte dietro una guida turistica, guardare nella direzione indicata, scattare tante foto e selfie per dimostrare ai loro follower sui social network di essersi divertiti e di essere stati qui. Ma ci sono stati davvero?

D’altro canto, conoscere troppo bene un luogo può portare a un risultato simile: essere attaccato troppo a lungo a qualcosa o a qualcuno elimina la necessità di esplorarlo, e si finisce per dare quel qualcosa o qualcuno per scontato. Sai di amarlo, sai che è bellissimo, e sai che sarà lì quando ti sveglierai il giorno dopo.

Memorie da costruire
Fin da quando sono arrivato a Roma volevo rivedere Jean-Marc Caimi. Non ci vedevamo dall’ultima volta che eravamo stati insieme a Tripoli, nel 2012. Da allora noi tutti – io, lui e Tripoli – avevamo compiuto un lungo viaggio. Quando l’ho chiamato mi ha suggerito di incontrarci “a Campo de’ Fiori, sotto la statua di Giordano Bruno”.

Sono arrivato presto e mi sono messo ad ascoltare i musicisti di strada. Era molto difficile immaginare che in questa bellissima piazza un tempo si tenevano esecuzioni pubbliche. La statua sotto la quale mi trovavo era stata eretta nel punto preciso in cui questo filosofo è stato ucciso, bruciato vivo perché accusato di eresia nel 1600. Qualche ora prima avevo attraversato a piedi piazza Venezia: anche in quel caso era stato per me difficile immaginare che un balcone affacciato sulla piazza fosse il simbolo del potere fascista. Da lì Mussolini pronunciava i suoi discorsi più importanti davanti a migliaia di persone giubilanti radunate in quella piazza.

Ho scoperto che Jean-Marc ha da poco iniziato a lavorare a un nuovo progetto con la sua partner Valentina Piccinni. Si tratta di una sfida completamente nuova per loro: con le loro foto vogliono catturare Roma. Mi ha detto di sentire il bisogno di entrare in un modo o nell’altro nello stato d’animo giusto per questo lavoro. Di solito il suo lavoro lo porta lontano da qui, in città e paesi diversi. Viaggia leggero, porta con sé solo le sue macchine fotografiche, i suoi obiettivi e la sua curiosità. Vuole scoprire nuovi posti incontrare nuove persone e conoscere le loro storie, così da poterle catturare.

A Roma è tutto diverso per lui; deve trovare nuovi modi per guardare la sua adorata città, in un certo senso deve essere uno straniero per poter essere in grado di guardare Roma con occhi pieni di domande. Deve anche, tra le tante faccende quotidiane, andare a prendere suo figlio a scuola. È difficile trovare il necessario livello di isolamento di cui un fotografo ha bisogno per potersi concentrare completamente nella caccia alle inquadrature, alle emozioni e alle storie.

L’ho lasciato alle sue esplorazioni di Roma, io volevo usare i pochi giorni che mi restavano per compiere le mie.

Non perdo mai l’occasione di visitare una chiesa. Osservare la bellezza delle chiese è per me più di un passatempo, perciò ho seguito il consiglio di Andrea e sono andato a visitare la basilica di Santa Maria Maggiore. Lì, dove meno me lo sarei aspettato, ho ricevuto il dono più bello tra quelli che Roma mi ha offerto. A farmelo è stata una perfetta sconosciuta.

Tra le panche di una chiesa
Era domenica, la messa è cominciata pochi minuti dopo il mio ingresso nella chiesa. Sono rimasto seduto in disparte su una delle panche per l’intera funzione. Non avevo bisogno di capire le parole dei canti, per me erano bellissime, e questo mi bastava. Dietro di me una ragazzina ha cantato per tutto il tempo con una voce piena di pace.

Era evidente che fossi un intruso alla messa: non mi sono fatto il segno della croce, non ho mai pronunciato la parola “amen”, me ne stavo seduto lì di lato, non in mezzo ai fedeli ma in disparte, a osservare e ascoltare. Se non altro non ero come tutti gli altri turisti che continuavano a camminare intorno scattando foto, come se le persone raccolte in preghiera fossero dei modelli. Non si premuravano neppure di abbassare il volume delle loro macchine fotografiche automatiche e dei loro smartphone, a ogni foto scattata producevano questi “click click” e “bip bip”, e di tanto in tanto si vedeva perfino qualche flash.

Verso la fine della messa le persone hanno cominciato a scambiarsi strette di mano. La ragazzina dalla voce angelica – avrà avuto al massimo quattordici anni – è venuta dritta verso di me e mi ha stretto la mano con un grande sorriso, senza l’ombra di un’esitazione. Nei suoi occhi ho visto solo limpidezza. Lo ha fatto spontaneamente, non si è fermata a interrogarsi sulla mia religione o le mie origini. Cose come il colore della mia pelle, il mio aspetto orientale e il fatto che non pregassi con tutti gli altri non erano importanti per lei. Ho lasciato la chiesa sapendo che era così che avrei voluto ricordare Roma. Il mio posticino preferito a Roma era da qualche parte negli occhi di quella ragazzina.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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