Torno sull’articolo del Guardian già segnalato sul sito di Internazionale - la storia del pop italiano in 10 canzoni - per fare una confessione.

Premetto che l’Italia è il mio paese adottivo (come sempre in questi casi, un po’ sono io che ho adottato l’Italia, un po’ è l’Italia che ha adottato me). Premetto anche che una parte importante di questa pratica di adozione si è svolta a livello culturale. Per esempio, circa un mese dopo il mio arrivo in Italia, quando a malapena riuscivo a formulare delle domande tipo “Dov’è la fermata dell’autobus?”, mi sono messo a leggere

Il visconte dimezzato di Calvino in italiano, con l’ausilio di un dizionario italiano-inglese che consultavo ogni tre-quattro parole. La mia full immersion toccava però anche la cultura nel senso antropologico della parola: ho imparato che i barbieri il lunedì sono chiusi, che il cappuccino non si beve dopo pranzo, sono diventato romanista (abitavo a Testaccio…).

Premesso tutto questo, c’è una parte della mia educazione culturale italiana che, mi vergogno a dirlo, rimane incompleta e inadeguata: la mia formazione musicale, soprattutto per quanto riguarda la musica pop.

Ci ho provato. Ho provato con i cantautori, da Fabrizo De André a Lucio Battisti a Francesco De Gregori. Forse bisognava esserci, e io sono arrivato in Italia solo nel 1984. Gli unici due cantautori di quella generazione che trovano posto nel mio iPod sono Francesco Guccini (La locomotiva, Un altro giorno è andato) ed Edoardo Bennato (Un giorno credi, L’isola che non c’è).

Ho provato anche con il festival di Sanremo, armato dal consiglio di un amico che mi diceva che la musica era più valida dello spettacolo, cioè che bisognava superare Pippo Baudo e compagnia per arrivare al succo. Però io al succo non sono mai arrivato, e di tutti riti nazionali italiani, Sanremo è quello che mi rimane più inspiegabile ed estraneo.

Credo che una parte della spiegazione di questa mia resistenza stia nel fatto che i nostri gusti musicali si formano quando siamo ancora giovani. A 15 anni, a Bristol, sono stato travolto dall’onda del punk (il mio primo concerto erano i Damned che suonavano alla Bristol university il 26 febbraio 1977 – qualche mese prima di questo concerto di Brighton).

Poco dopo ho cominciato a esplorare il reggae e la musica nera in generale, poi ho scoperto a ritroso i Velvet Underground, Dylan, il folk impegnato, il blues. Continuo a seguire la musica e a scoprire cantanti e gruppi nuovi (in questo momento sto ascoltando e riascoltando ossessivamente Diamond mine, frutto della collaborazione tra King Creosote, cantante neo-folk scozzese, e Jon Hopkins, creatore di sonorità elettroniche).

Ma la mia cultura musicale rimane quella anglosassone, con qualche deriva caraibica e africana. E devo ammettere che i gruppi o i cantanti italiani che ho seguito in questi anni sono quelli, forse, che più si avvicinano a questo modello, dal neo-punk dei Prozac+ a esponenti hip-hop come i Flaminio Maphia.

Quando guardo la classifica del Guardian, poi, mi accorgo di quanta sia strana e poco rappresentativa l’idea della musica popolare italiana che abbiamo nel Regno Unito. Certo, mettere brani di artisti come Valerie Dore o Eddy Huntington in una lista delle dieci canzoni più significative del pop italiano credo che sia una mossa volutamente ricercata e oscurantista da parte del giornalista che l’ha compilata.

Comunque, questa classifica non è tanto una storia del pop italiano quanto una “storia del pop italiano che è arrivato da noi”. Se guardate bene, quattro canzoni su dieci sono del genere dance o disco – perché la club music varca le frontiere come nessun altro genere. Infatti, dopo Volare, la canzone italiana che ha avuto più successo in Inghilterra era Ride on time dei Black Box.

Strano binomio, a pensarci: Domenico Modugno e l’house music di Rimini, 1989 circa. Ma è un binomio perfettamente in linea con il quadro frammentario della musica popolare italiana che esiste all’estero. Quadro che, per mia colpa, non sono in grado di completare, almeno non più di tanto, quando gli amici inglesi mi chiedono se c’è qualche band italiana interessante che dovrebbero ascoltare.

Post-scriptum: forse riconoscendo l’estrema soggettività della classifica citata qui, il Guardian ha in qualche modo riparato con due articoli successivi – uno scritto dal giornalista italiano Matteo Bordone, sulla scena musicale attuale in Italia, e un altro che racconta l’esperienza di Alessio Natalizia, un musicista elettronico di Vasto che si è trasferito a Londra da qualche anno.

Post-post-scriptum: voglio comunque fare uno sforzo in più. Già sono andato a sentire alcuni dei gruppi e cantanti consigliati da Bordone è c’è effettivamente qualcosa di interessante, tipo i Verdena. Se avete dei consigli per gli ascolti, I’m all ears

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