Ascoltando il discorso di Matteo Renzi davanti al senato, l’altro giorno, mi è venuta in mente un’antica poesia degli inuit, citata da Ariel Glucklich nel suo libro The end of magic. Ne riporto solo la parte saliente:
C’era un tempo in cui le parole erano magiche.
La mente umana aveva dei poteri misteriosi.
Una parola pronunciata per caso
Poteva avere delle conseguenze inaspettate.
D’un tratto la parola potrebbe prendere vita
E quello che la gente voleva che succedesse poteva succedere
Bastava dirla.
Per il grande antropologo polacco Bronislaw Malinowski, questo tipo di magia verbale era strettamente legata alla “capacità dell’uomo di sognare con gli occhi aperti, di sperare nonostante tutto”. In
I giardini corallini, il suo studio sulle pratiche agricole dei trobriandesi (abitanti di un arcipelago al largo della Nuova Guinea), Malinowski scrive: “L’essenza della magia verbale consiste nel dire una cosa non vera, una cosa che sta in diretta contrapposizione con il contesto della realtà. Ma la fede nella magia ispira la convinzione che l’affermazione falsa deve avverarsi… La magia è l’espressione istituzionalizzata dell’ottimismo umano”. Un esempio: non avendo pesticidi, gli agricoltori trobriandesi, armati di scope, cantavano nei loro giardini: “Spazzo, spazzo, spazzo via, gli insetti li spazzo via, la ruggine la spazzo via, i parassiti li spazzo via…”.
Le promesse che Renzi ha fatto davanti al senato e in diversi altri momenti della sua scalata al potere non sono delle falsità in senso stretto: oltre all’impegno facilmente esaudito - quello di un governo giovane, snello e diviso a metà fra donne e uomini - non sappiamo ancora se saranno mantenute o meno. Sono, a seconda di come si valuti Renzi, delle verità sospese o delle bugie ancora non scoperte.
Ma la seconda parte della definizione di Malinowski ci sta tutta. Renzi emana una fede assoluta che l’affermazione si avveri, ed è in questa sicurezza - sicurezza in sé, ma anche sicurezza nel cortocircuito magico parola-azione - che risiede gran parte del fascino che esercita tra l’opinione pubblica e i mezzi d’informazione. È diventato il salvatore, il verbo incarnato. Siamo arrivati al punto che anche organi di stampa autorevoli trasmettono in diretta il suo intervento da una scuola media di Treviso (cosa che o ti fa tenerezza o ti ricorda certi contenuti dei tg nordcoreani, con la differenza che qui il direttore ha autorizzato la diretta non perché costretto ma perché immagina una richiesta da parte del suo pubblico).
Certo, molti politici fanno promesse. Ma pochi scendono nei dettagli come Renzi. Durante la sua campagna elettorale nella primavera del 2009, l’allora candidato sindaco di Firenze ha reso pubblica una lista di “100 cose da fare in 100 giorni”. Era inevitabile che molte di queste cose, che spaziavano dalla “dotazione agli uffici di apparecchi telefonici per sordi” alla promozione di “una legge speciale per Firenze” sarebbero rimaste su carta. Un’analisi (ovviamente di parte) del gruppo Forza Italia al consiglio comunale di Firenze del gennaio del 2014 calcola che delle 100 cose da fare in cento giorni la giunta presieduta da Renzi ne ha realizzate solo un quarto in circa 1.700 giorni (strano che nessun forzista abbia mai passato al setaccio in questo modo il Contratto con gli italiani). Ma anche fossero la metà o il 70 per cento, resta il punto che l’immagine di Renzi come “l’uomo che fa” è basata almeno in parte su quello che sa fare con le parole.
Per il filosofo del linguaggio britannico J.L. Austin, i performative utterances sono quelle affermazioni che non possono essere giudicate vere o false perché, anziché descrivere qualcosa, compiono un’azione. Il caso classico è la parola “sì” davanti all’altare, con cui non solo si esprime consenso e affetto, ma si sigilla un contratto legale. Tutte le promesse sono performative utterances in questo senso, perché mettono in atto una specie di contratto. Per un politico hanno molti vantaggi: suonano bene e, anche se qualcuno con la memoria lunga obietta che l’impegno preso non è stato mantenuto, è difficile dimostrare che la promessa stessa non era sincera.
Renzi è un abile manipolatore di parole. Ha coniato la buzz word “rottamazione” per i politici, ha ideato (o chi per lui) degli hashtag Twitter come #lavoltabuona, ha diffuso il nome patriottico Italicum prima che i giornalisti potessero applicare un -um meno rispettoso alla sua proposta di legge elettorale. Ma il suo cavallo di battaglia è la performative utterance. Quando, per esempio, dice davanti al senato “Credo sia arrivato il momento di mettere nel mese di giugno (sarà compito del ministro competente) all’attenzione di questo parlamento un pacchetto organico di revisione della giustizia che non lasci fuori niente”, crea nella mente di chi ascolta l’impressione di un lavoro già quasi fatto, e nello stesso tempo assegna un bel rompicapo al ministro Orlando: due piccioni con una fava.
Le promesse possono venire meno per molti motivi. Quella del novembre del 2011 di regalare ai fiorentini, entro la primavera del 2014, una nuova linea di tram che collega l’aeroporto di Peretola alla stazione di Santa Maria Novella, è saltata per problemi con il finanziamento del progetto da parte delle banche (i lavori sono appena partiti). Ma se un intoppo del genere può sbugiardare un sindaco, non potrebbero delle grane ben maggiori contrapporsi alla voglia di fare di un presidente del consiglio? Soprattutto quando alcune sue promesse - per esempio nel campo della cultura - si basano sulla speranza di finanziamenti privati, non sulla certezza di quelli pubblici?
Eppure la voglia di credere ai cortocircuiti parola-azione di Renzi è ancora forte. Il sottoscritto non è immune alla magia del calendario che il nuovo premier ha sbandierato il 17 febbraio. Voglio credere che ci sarà una nuova legge elettorale e delle riforme costituzionali entro febbraio (mancano solo due giorni, ma i tempi renziani non sono quelli dei comuni mortali), un jobs act a marzo, la riforma della pubblica amministrazione ad aprile, quella del fisco a maggio, una rivoluzione giudiziaria a giugno. Voglio anche credere che queste saranno leggi buone che rimetteranno in sesto un paese sofferente, non dei compromessi pasticciati tra i vari membri della coalizione.
Visto lo slancio e voglia di fare del Matteo nazionale, è praticamente impossibile che vada tutto storto, no? O meglio, per dirla alla Renzi, #whatcouldpossiblygowrong?
Correzione. 28 febbraio, 2014. Nella versione originale dell’articolo c’era scritto “il linguista statunitense J.L. Austin” mentre Austin è un filosofo del linguaggio britannico.
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