02 ottobre 2009 17:17

La Repubblica Popolare Cinese è stata fondata il 1 ottobre del 1949. Ogni dieci anni le autorità organizzano una celebrazione speciale, per dare alla gente l’illusione che il paese sia ricco e forte, e per soddisfare la vanità dei suoi leader.

Nella primavera del 1992, con il suo famoso “viaggio al sud”, Deng Xiaoping diede il via a una nuova ondata di riforme. Deng morì nel 1997, lasciando in eredità a chi restava un misto di successi e fallimenti. Il suo successore alla carica di segretario generale del partito fu Jiang Zemin, un personaggio che amava combinare il potere con la teatralità. Nel 1999 decise di festeggiare il cinquantesimo anniversario della Repubblica con una grande parata militare.

Lo scopo delle riforme di Deng era avviare un’economia di mercato, e quindi molte aziende pubbliche furono svendute ai “più capaci”, creando un esercito di capitalisti. Ma molti dipendenti rimasero senza lavoro e senza assistenza sociale. Le zone residenziali delle città e le campagne circostanti furono acquistate a prezzi ridicoli e il divario tra ricchi e poveri cominciò a crescere. Le avvisaglie della crisi sociale di oggi erano già visibili, ma lo scontro non era ancora diventato feroce. Così il cinquantesimo anniversario della Repubblica Popolare Cinese fu celebrato con grande sfarzo.

A spegnere l’entusiasmo arrivò un articolo intitolato “Cinquant’anni di processi e di sofferenze” scritto da Li Shenzhi, intellettuale democratico ed ex vicepresidente dell’Accademia cinese delle scienze. Il tono era tagliente: “Il 1999 è anche il decimo anniversario degli incidenti del 4 giugno che misero fine alle proteste di piazza Tiananmen. Le autorità potrebbero approfittarne per dichiarare un’amnistia e dare un po’ di conforto alle vittime e alle loro famiglie. Questo risolleverebbe il morale della popolazione, getterebbe le basi per nuove riforme e farebbe meraviglie per l’immagine internazionale della Cina”.

Come è noto Jiang Zemin non introdusse nessuna riforma. La crisi sociale intravista durante il suo regno è scoppiata durante la leadership di Hu Jintao. Solo nel 2008-2009, decine di migliaia di persone hanno partecipato a manifestazioni di protesta spesso violente. Ci sono stati disordini in Tibet, a Weng’an, Shishou, Urumqi, alle fonderie di Tonghua e in altre regioni.

Questa crisi è dovuta alla perdita di credibilità del governo e, soprattutto, degli amministratori locali. Secondo un sondaggio condotto dalla rivista Insight China, i cinesi hanno più fiducia nelle prostitute che nei politici.

Un esempio della perdita di credibilità del governo è il fatto successo il 17 luglio 2009 nella contea di Qi, nella provincia di Henan, quando un milione di persone ha cominciato ad abbandonare le case. Nel giro di due o tre ore, decine di migliaia di auto hanno invaso le strade, provocando un ingorgo. Il motivo del panico era un incidente avvenuto in un impianto industriale dove c’era materiale radioattivo. In realtà la situazione era sotto controllo, ma l’amministrazione locale non aveva rilasciato dichiarazioni, così la gente ha pensato che volesse mettere a tacere la cosa. La voce di un’imminente esplosione aveva cominciato a diffondersi, provocando una fuga di massa.

A episodi come questo si aggiungono i continui racconti sull’inaffidabilità dei politici. In un’unica retata tra le bande criminali di Chongqing sono state arrestate 1.500 persone. Tra loro c’erano anche il vicecapo della polizia locale, il presidente del tribunale, alti funzionari e alcuni ricchi uomini d’affari. Molti di loro erano “rappresentanti del popolo” locali, se non addirittura nazionali. Non solo: negli ultimi mesi il vicepresidente della corte suprema, il sindaco di Shenzhen, il segretario del partito dello Zhejiang e il viceministro dei trasporti sono stati rimossi per corruzione. E cosa sta facendo il governo centrale? La crisi finanziaria ha aggravato la disoccupazione. Pechino ha invitato le amministrazioni a tutti i livelli a intervenire, soprattutto in favore dei neolaureati. Ma i cittadini non si fidano più delle promesse delle autorità.

Intanto, prima del sessantesimo anniversario è apparsa online la registrazione di una conversazione con un “vecchio compagno”. L’identità della fonte non è stata rivelata, ma il contenuto fa pensare che si tratti di un membro del Comitato centrale. L’articolo è stato letto da 300mila persone in pochi giorni. La fonte ammette che questi sessant’anni di governo non sono stati gloriosi: molti hanno sofferto a causa del partito, che non ha rispettato l’impegno di “costruire una Cina libera e democratica”.

Il documento ha provocato un terremoto. Ormai la gente sta cominciando a rendersi conto dei suoi diritti, del suo desiderio di partecipare, e del conflitto tra questo desiderio e un sistema politico chiuso che prende decisioni senza alcun controllo. Questo conflitto ormai non è più teorico, è reale. Quindi che senso ha festeggiare?

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