15 aprile 2015 17:20

I nomadi sono quelli che stanno nei campi nomadi. Una sorta di profezia che si autoavvera. Quindi, se è vero che i nomadi sono quelli che stanno nei campi nomadi, risulta trascurabile il motivo della loro presenza lì. Una libera scelta? L’effetto di una discriminazione? L’assenza di alternative?

Eppure, rispondere a queste domande è tanto più ineludibile quanto più i dati ci parlano di una realtà sorprendente: il nomadismo, considerato una sorta di connotato identitario o addirittura genetico (”È nel loro dna”), riguarda ormai solo una piccola, piccolissima, parte di quella popolazione, circa il 3 per cento.

Ma è proprio sulla base di questo presupposto, ormai del tutto superato, che si sono sviluppate, da decenni, le politiche pubbliche verso queste minoranze nel nostro paese: campi, aree di sosta, aree di transito, aree attrezzate sono state finora le diverse declinazioni di un’unica soluzione abitativa ritenuta la sola percorribile.

Una soluzione che ha ottenuto come risultato la segregazione abitativa e, di conseguenza, l’esclusione e l’autoesclusione sociale delle comunità rom. Si è attivata, così, una inesorabile spirale.

Come già ho scritto qui, i campi nomadi sono stati, allo stesso tempo, causa ed effetto della discriminazione: producono, infatti, due processi che si alimentano vicendevolmente.

I rom presenti nei campi tendono inevitabilmente ad autoghettizzarsi dentro quella dimensione circoscritta e coatta di marginalità sociale e autogoverno, dove si riproducono circuiti illegali e relazioni di potere. Per contro, chi abita vicino a quei campi si convince del fatto che rappresentino una costante minaccia e, dunque, oscilla tra volontà di chiuderli in maniera definitiva e tentazione di “spazzarli via” con ogni mezzo.

Non solo: proprio il ricorso allo strumento dei campi è l’esempio più bruciante dell’esistenza di un metodo, sistematico e deliberato, utilizzato nei confronti di una minoranza. Un approccio emergenziale e assistenzialista che ha privato, di fatto, le comunità rom della possibilità di accedere al godimento dei diritti di cittadinanza, a partire dal mancato riconoscimento della loro dignità sociale.

Poi, ed è storia di queste settimane, è stato un crescendo di stigmatizzazione e di ostilità. La cosa, che preoccupa molto alcuni di noi, ci ha indotto a scrivere il testo che segue.

Come si costruisce un capro espiatorio

I rom sono antipatici a (quasi) tutti: ed è indubbio che una parte di essi vive nella illegalità, commette reati e induce i propri figli all’accattonaggio. Per molti italiani i rom costituiscono il primo motivo di allarme sociale. Tutto ciò può giustificare l’aggressiva mobilitazione anti-zingari oggi in corso nel nostro paese? Una sorta di pogrom culturale ai loro danni?

Una minoranza di circa 180mila persone per metà cittadini italiani e per il 60 per cento residenti in abitazioni rischia di rappresentare il capro espiatorio delle ansie collettive, delle frustrazioni sociali e dell’inquietudine per la propria sicurezza.

Oggi i rom, quelli buoni e quelli cattivi, sono tragicamente soli: nessuno sta dalla loro parte e nessuno sembra ricordare che i diritti sono indivisibili. E che negare ai rom le garanzie e le risorse della cittadinanza vuol dire accettare che quelle stesse garanzie e quelle stesse risorse possano venire limitate e compresse nei confronti di noi tutti.

Consentire che i rom diventino l’oggetto dell’ostilità sociale e il bersaglio di un vero e proprio meccanismo di degradazione morale significa contribuire a far sì che la nostra società sia sempre più cattiva e ingiusta. Assistere in silenzio a questa mobilitazione dell’odio equivale alla resa verso chi vuole criminalizzare tutta una minoranza per poterla mettere al bando.

Luigi Manconi , Alessandro Bergonzoni, Anna Foa, Gad Lerner, Ermanno Olmi, Moni Ovadia, Santino Spinelli

Per aderire abuondiritto@abuondiritto.it

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it