10 settembre 2015 15:23

Sono monumenti, anticaglie: siamo abituati a pensare che i templi appartengano al passato. O, quantomeno, che costruire templi appartenga al passato. Credevamo anche che distruggerli appartenesse al passato, adesso sembra che qualche dio la pensi diversamente. Alcuni anni fa molti di noi immaginavano che gli dèi fossero morti, e le cose sono andate come sono andate.

Perché gli dèi sono ancora qui e stabiliscono regole e muovono folle e giustificano guerre e decidono vite e sono ancora un grande business.

O almeno è quello che pensano alcuni imprenditori indiani che non hanno mai sentito parlare della torre di Babele e che hanno deciso di costruire il tempio più grande del mondo. Per farlo hanno studiato la concorrenza e hanno previsto delle dimensioni imbattibili: la loro proprietà occuperà ottanta ettari, un centinaio di campi da calcio, e avrà diciotto torri piramidali. La più alta sarà di 115 metri.

Il turismo religioso, dietro il santo nome di pellegrinaggio, è stato una delle prime forme di turismo

L’attuale detentore del record (Angkor Vat, Cambogia, quarto secolo) occupa una superficie più ampia, ma ha meno edifici e solo nove torri, che sono comunque più basse. Sono dettagli banali, di spiritualità sospetta: una battaglia dei numeri.

In ogni caso, il nuovo tempio da record si chiamerà Viraat Ramayan mandir (maestoso tempio di Ramayan), sarà dedicato a un avatar di Vishnu, Shri Rama, e somiglierà a un riccio di punte e puntine di pietra rossa, la stessa che caratterizza il Forte rosso di Delhi.

Sarà pronto nel 2023 e sarà costruito da un’azienda privata, la Mahavir Mandir trust, che prevede un investimento di cinque miliardi di rupie, circa settanta milioni di euro.“Non è solo un tempio, è un’opera d’arte”, ha detto alla rivista online Quartz Kishore Kunal, segretario del comitato organizzativo.

Ma almeno lui non ha nascosto il fatto che un tempio dev’essere prima di tutto un buon affare: “Questa opera attirerà i turisti e creerà moltissimi posti di lavoro per gli abitanti della zona. È questa la ragione principale per cui sarà costruito”.

Il turismo religioso, dietro il santo nome di pellegrinaggio, è stata una delle prime forme di turismo. Quando viaggiare era un’impresa lunga e pericolosa, gli unici a farlo erano quelli che volevano fare la guerra o fare affari, emigrare o chiedere qualcosa a un dio.

Gesù di Nazareth volle approfittare della folla di turisti religiosi che riempiva Gerusalemme a pasqua per incitarli alla ribellione. Nessun musulmano ignora il suo dovere di visitare La Mecca almeno una volta nella vita. Nel medioevo cristiano i pellegrini di Santiago misero in contatto villaggi che comunicavano ben poco. Molti di loro continuano ad andare a Lourdes, a Guadalupe o a Roma, e gli altri vanno a Shikoku, Benares o Sukhothai.

Ovviamente, i pellegrini sono sempre stati un business: dalle fortune che i creduloni in cerca di un futuro pagavano all’oracolo di Delfi fino alla pleiade di ossa acquistate da sant’Elena, la madre dell’imperatore Costantino, perché le avevano detto che erano di quel Gesù che fallì nella sua rivolta.

Il turismo religioso ha sempre fruttato un sacco di soldi, ma di solito chi lo promuoveva non ne parlava, come se il fervore religioso fosse l’unico obiettivo e il lucro fosse una mancia degli dèi. Probabilmente il nuovo tempio da record è il primo a mettere davanti il profitto.

Non è l’unica impudicizia dell’impresa. Il nuovo tempio sorgerà a Champaran, un distretto del Bihar, lo stato più povero di un paese pieno di poveri. Tre anni fa ho passato diverse settimane in un ospedale di Medici senza frontiere a un centinaio di chilometri di distanza, in cui i bambini morivano di fame.

Quando gli chiedevo perché, le madri rispondevano sempre usando la parola dio nelle loro risposte: perché è la volontà di dio, speriamo in dio, dio doveva punirci, dio l’ha portato via per prendersene cura, dio fa quel che è meglio per noi. Per esempio templi, nella terra che ha più bisogno di lavoro, scuole, cibo, ospedali – che ovviamente devono essere un pessimo affare.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

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