11 febbraio 2016 15:42

Non è facile tapparsi il naso: chi lo fa di solito è infastidito da qualcosa. Gli odori sono tra noi, s’insinuano, s’impongono. In generale sentiamo gli odori che capitano. Per le strade di qualsiasi città vediamo forme e colori pensati da qualcuno (case, vestiti, manifesti), sentiamo suoni prodotti da qualcuno (dagli altoparlanti, dalle macchine, dagli auricolari), ma ciò che percepiamo con l’olfatto di solito nasce da solo, di sua iniziativa.

Con l’eccezione, chiaramente, dei profumi. Esistono profumi per le persone, che non servono più a dissimulare la sporcizia ma a informare di quello che si è o si vorrebbe essere, e profumi per ambienti, che usiamo – quelli sì – quando non ci piace il loro odore naturale.

Gli odori più richiesti

Non è difficile stabilire quali odori ci risultino sgraditi: marciume, escrementi, cibo andato a male, mozziconi di sigaretta, fluidi corporei. E quelli che ci piacciono: Madre Natura, Casa Dolce Casa. Generalmente la natura ha un puzzo terribile, come sa chiunque sia stato, per esempio, nella zona dell’Empordà d’estate, e la casa è il posto dove cerchiamo di dissimulare i tanfi con quei profumi, ma gli odori che ci offrono le macchine da odore (“profumatori d’ambiente”) in genere sono pubblicizzati come aromi naturali o riflessi di una casa felice.

Uno studio britannico li ha censiti: gli odori più richiesti sono pane appena sfornato, lenzuola di bucato, erba tagliata, fiori freschi, caffè, terra bagnata, vaniglia, cioccolato, e infine (molto british), fish & chips.

Adesso ci fanno sapere che l’odore non è stato sfruttato a dovere per la causa principale: vendere. Gli esperti di marketing hanno scoperto che nelle nostre vite non c’è più molto spazio per i segnali visivi (ogni colore e ogni forma sono associabili a troppi marchi, il pubblico è saturo) o uditivi (in un mondo traboccante di suoni). E comunque è possibile ignorare i cartelloni pubblicitari o isolarsi con le cuffie, ma è impossibile non usare il naso. Così hanno ricordato il buon vecchio Proust e la sua famosa madeleine: nessun senso ha un potere evocativo forte come l’olfatto.

Le persone ricordano l’1 per cento di quello che toccano e il 35 per cento di quello che percepiscono con l’olfatto

Diversi studi sono arrivati a cifre bizzarre: le persone, a quanto pare, ricordano l’1 per cento di quello che toccano, il 2 per cento di quello che sentono, il 5 per cento di quello che vedono e il 35 per cento di quello che percepiscono con l’olfatto. Quindi, per attirarle, c’è bisogno di ricorrere all’odore.

Il trucco è antico: chiunque sia passato davanti a un fornaio la mattina presto può confermarlo. I concessionari di auto usate usano uno spray che sa di automobile nuova. Ma il lavoro degli esperti di marketing consiste nel dare nomi nuovi a fenomeni antichi, e uno di loro ha ribattezzato la questione. In inglese, chiaramente: olfactory branding, come dire branding olfattivo o, riprendendo l’“immagine di marca”, odore di marca. Il colpevole del neologismo è un indiano, Shuvam Chatterjee, della Regent education & research foundation, che ha appena pubblicato un articolo accademico dove lo definisce “l’ultima frontiera del marketing”.

Il futuro ha un cattivo odore, o ne ha uno troppo buono. Presto le aziende che seguiranno i suoi consigli cercheranno di appropriarsi di un odore e farne un marchio: cercheranno una loro griffe aromatica per diffonderla all’interno dei loro spazi e creare un’associazione d’idee.

Allora, come una mela fa pensare alla Apple e una certa gradazione di rosso alla Coca-Cola o a Lenin, qualcuno entrerà in un’osteria dove friggono calamari e penserà: “Ah, il mio ultimo viaggio con la Iberia”, sentirà profumo d’incenso in un centro commerciale e mormorerà tra sé e sé: “Perdonami padre, perché ho peccato”, o sentirà odore di cavallo durante una carica della polizia e ricorderà con affetto i suoi boxer Ralph Lauren.

I problemi chiaramente non mancano. Sarà difficile creare marchi con un odore globale: quello che per alcune culture è gradevole può essere insopportabile per altre. A meno che, insieme al marketing degli odori, non cominci la definitiva globalizzazione del gusto olfattivo: un momento che un giorno sarà ricordato come la fine di un’era, la scomparsa di un’altra diversità.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano spagnolo El País

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